Quando in Croazia già bruciavano campi, case e persino chiese, una macabra battuta diceva che la Bosnia sarebbe stata ammessa direttamente alle finali del grande massacro nella ex Jugoslavia. Ma nessuno riusciva a credere che la primavera del Novantadue avrebbe portato la guerra dentro Sarajevo, provocando un “urbicidio”, parola sgraziata che rende bene l’annientamento di una comunità variopinta come i tappeti del suo bazar, che mescolava serenamente secolari diversità : un crimine culturale, appunto, oltre che contro l’umanità. Tornando a Sarajevo, vent’anni dopo, e’ subito evidente come l’eliminazione fisica e l’esodo forzato di migliaia di cittadini abbiano ferito in profondità lo spirito della Gerusalemme balcanica, la città delle quattro religioni (cattolici, ortodossi, musulmani, oltre alla piccola comunità ebraica), delle Olimpiadi, della tolleranza, parola fragile e bella, sostituita da altre che, nonostante tutto, sono diventate sinonimi di convivenza e pace : equilibrio, spartizione, affari, corruzione, clientelismo, alchimia istituzionale che dagli accordi di Dayton (1996) regola (e tiene a bada) i rapporti di forza fra serbi, croati e bosniaci musulmani. Con il malinconico risultato che in questo dopoguerra infinito, la Bosnia – la grande vittima del conflitto – è uno Stato finto e un Paese rimasto più lontano dall’Europa, mentre i nemici di ieri si avvicinano o stanno per entrarci.
Il mondo, per farsi perdonare l’indifferenza davanti al massacro dei bosniaci, da anni inonda il Paese e la sua capitale di aiuti, cooperanti, progetti di ricostruzione e sviluppo. Grattacieli di vetro, grandi alberghi, nuove sedi istituzionali e diplomatiche, shopping center e autosaloni hanno quasi ovunque cancellato voragini di granate e macerie dei trentacinquemila edifici colpiti o danneggiati. Decine di bar, ristoranti, ritrovi notturni, centri culturali, rivelano voglia di vivere e divertirsi della gioventù di Sarajevo, quella che sa poco della guerra o non l’ha nemmeno vissuta. L’Holiday Inn, l’albergo dei giornalisti durante l’assedio, dal cui tetto i pretoriani serbi cominciarono a sparare inneggiando al loro pezzetto di Bosnia separata ed etnicamente pura, è oggi soltanto un hotel fra i numerosi quattro e cinque stelle, con tutti i più moderni comfort. La biblioteca è in fase di restauro, ma il vento gelido dei Balcani si è ormai portato via anche le ceneri di migliaia di libri d’inestimabile valore. Sulle alture dell’assedio hanno modernizzato le piste da sci.
La città resuscitata appare come avvolta in un grande sipario, fatto di nuovo cemento e di oblio. Ho voluto rifare, come al tempo della guerra, il percorso stradale, dalla costa fino a Sarajevo, lungo la vallata della Neretva, passando per Mostar, un’altra delle città martiri della Bosnia, con il suo storico ponte, ricostruito per riunire soltanto turisti e scolaresche. La copia è più famosa dell’originale. Un ragazzo si tuffa a pagamento, per la foto ricordo.
Entrando dal viale dei cecchini, che si percorreva a tutta velocità, per limitare i rischi, si stenta a riconoscere la stessa Sarajevo. Vent’anni sono una generazione. E come scriveva Ivo Andric, la memoria è cosa complicata nei Balcani. Qui non sembra un’eredità dei sopravvissuti, più propensi a dimenticare l’orrore, ma un racconto alimentato da testimoni esterni, di ieri e di oggi : scrittori, giornalisti, registi, artisti, operatori umanitari, responsabili delle istituzioni internazionali.
Anche per i bambini, la memoria è cosa complicata, perché nelle scuole bosniache s’insegna una storia diversa, che rimane impigliata nelle pagine dell’identità e della fede e comunque si ferma alla ex Jugoslavia. Come pensa lo scrittore Marko Vesovic, che non ha mai lasciato Sarajevo, qui il cervello non serve a ricordare, ma a dimenticare. “Viviamo in una specie di democrazia etnica sotto la cappa della comunità internazionale, in una falsa normalità cui la gente si è ormai abituata. Sento una terribile nostalgia per gli anni dell’assedio, perché allora noi – gli assediati – eravamo una vera comunità, fatta di dialogo, solidarietà, amore. Quella Sarajevo e quella Bosnia non esistono più. I giovani, se vogliono rimanere qui, devono diventare nazionalisti e questa è la più pesante responsabilità della classe politica.”
E’ una diagnosi su cui concordano tutti gli osservatori e quanti sono impegnati nella ricostruzione civile del paese. “Quale anniversario? Quello della città assediata? O quello che festeggiano i serbi? O quello della parte croata? Qui tutti ricordano la propria “vittoria” o i propri torti e ognuno racconta la propria storia. Il centro di Sarajevo può apparire internazionale, europeo, persino laico. Ma il disastro comincia in periferia e nel resto della Bosnia”, dice Jovan Divijak, uno degli eroici difensori della capitale assediata. Era un generale serbo, ma scelse di stare dalla parte della sua gente e della città dove era cresciuto. Da anni, dirige una fondazione che ha lo scopo di diffondere una cultura condivisa e laica, per preparare la classe dirigente di domani. “E’ difficile, persino pericoloso, mettere le mani nell’educazione. A Sarajevo, ci sono 54 scuole, ma due soli presidi serbi e uno solo croato. Altrove le proporzioni sono invertite. E questo succede in tutti i campi, dai servizi pubblici all’esercito, dallo sport alle imprese, con il risultato che ovunque ci si sente sempre minoranza.”
La memoria è affidata ai monumenti, ai cippi dei cimiteri urbani, a troppe lapidi. La memoria si trasforma in compassione, nel visitare il museo del tunnel, quel cunicolo che durante l’assedio consentiva l’approvvigionamento, il contrabbando e qualche fuga. O nel rivedere il mercato della strage. O il mazzo di fiori sempre freschi sul ponte delle prime vittime, Suada Diliberovic e Olga Susic, le ragazze uccise mentre marciavano in testa al corteo del “comitato di salvezza nazionale”. Così la Bosnia cominciò a disintegrarsi, nel giorno (6 aprile) del suo riconoscimento internazionale. Una mostra fotografica ha un titolo emblematico : “Volevamo soltanto la pace”. Ma i serbi di Bosnia hanno festeggiato l’anniversario della loro repubblica, dove Karadzic e Mladic pianificavano l’annientamento dei concittadini di Sarajevo. Anche la memoria dei crimini è sbiadita. Molti responsabili sono tornati in libertà. Altri non hanno nemmeno conosciuto il carcere. E chi si è arricchito con la guerra investe il bottino nella capitale “europea”.
Le nuove generazioni, preparate in licei e università di buon livello, non hanno molte alternative : andarsene per non ascoltare più le stesse storie, o inserirsi nel sistema, la “camicia di forza” istituzionale che assicura sopravvivenza e impedisce il rigurgito etnico. Il distacco dei giovani dai politicanti è sprezzante. “I responsabili religiosi si comportano come leader di partito e questo non favorisce un’identità nazionale. Lo spirito tollerante di Sarajevo è tenuto vivo da una microclasse giovane, artistica, creativa o dai diplomati inseriti nelle istituzioni internazionali. Parlano inglese e dialogano con il mondo su internet. Lo spirito di Sarajevo è “online”, ma rischia di essere virtuale”, nota Nihad Hasanovic, giovane scrittore d’avanguardia, ex combattente dell’armata bosniaca a Bihac.
“Ci vuole molto coraggio a rifiutare condizionamenti della famiglia e dell’ambiente. La gente è stanca, rassegnata, impoverita. E’ inutile negare che i nazionalisti hanno vinto e sono al potere dalla fine della guerra. Questa è la più grande responsabilità della comunità internazionale,” dice Svetlana Broz, la nipote di Tito, che alla fine del conflitto lasciò Belgrado per trasferirsi nella città della sua giovinezza. Qui dirige la sezione bosniaca di Gariwo, l’ong milanese dedicata alla ricerca e al sostegno dei tanti piccoli e sconosciuti eroi della guerra, di quanti ebbero la forza morale di rifiutare il veleno dell’odio etnico. “Continuiamo a credere che l’indifferenza di molti sia più pericolosa della crudeltà di pochi.”
Tutti hanno perso qualche cosa, in questa specie di apartheid legalizzata. La diversità in Bosnia è ridotta a dosaggio di posti e appalti, distribuiti su base confessionale o etnica. L’inno nazionale esiste, ma solo musica, senza parole. Sarajevo è la somma di tante sottrazioni, mai di compensazioni, con la variante che la maggioranza musulmana dei suoi abitanti ha reso più appariscenti moschee e costumi, diluiti prima delle guerra nella molteplicità culturale e religiosa. L’Islam, che alleviò le sofferenze dell’assedio e sostenne con soldi e volontari il sogno nazionalista dei bosniaci più radicali, ha contribuito alla trasformazione di Sarajevo, senza però diventare egemone. La moschea è affollata, ma non si vedono molte ragazze con il velo. Nei saloni del Bristol, uno dei grandi alberghi finanziati da sauditi e kuwaitiani, dove l’alcol è proibito, si festeggiano ancora matrimoni misti, che prima della guerra erano uno su tre. La campana della cattedrale risponde ai rintocchi della chiesa ortodossa, le preghiere del muezzin salgono dai minareti, ma jazz e disco music risuonano nei pub e locali notturni. Eppure il presidente dell’entità serba, il duro Milorad Dodik, ripete con disprezzo : “Vado a Teheran”, nelle rare occasioni di visita in una capitale che non riconosce.
Ci sono cose di Sarajevo che tuttavia non sembrano morte : la dignità e l’ironia di una comunità che non vuole essere compatita. La dignità e l’ironia che sostennero la resistenza e alleviarono il dolore. Mentre si sparava e si moriva per raccogliere l’acqua o fare la fila per il pane, Sarajevo continuava a vivere di balli clandestini, matrimoni celebrati in fretta, ragazze sempre curate, con la loro eleganza semplice e altera, ospitalità agli stranieri, lezioni nelle cantine. La dignità di molti, croati, musulmani bosniaci, serbi, significò il rifiuto di partecipare alla barbarie e deteminò eroismi, episodi da teatro dell’assurdo, incredibili solidarietà con il nemico, che continuano oggi, come la sottoscrizione fra veterani dell’armata bosniaca per aiutare i colleghi serbi smobilitati che un tempo sparavano sulla città. La dignità di Sarajevo esprimeva insoppribile voglia di vivere, amare, persino ridere delle sventure. Un ferito, caricato su un’auto, teneva il braccio sanguinante fuori dal finestrino : “Non voglio che sgoccioli sui sedili….”
Alla fine dell’assedio, durato quattro anni, il sindaco assicurava la rinascita e diceva : “C’è ancora luce, dietro la montagna, anche se il sole è tramontato”. Ho l’impressione che la gente di Sarajevo non voglia ammettere: “Siamo l’ombra di ciò che eravamo”.