La corrente del fiume Kagera trascinava migliaia di corpi. Mucchi di cadaveri davanti alle chiese e sulle piazze polverose dei villaggi. Membra fatte a pezzi, di donne, vecchi, bambini. In altri luoghi, i resti erano soltanto resti, ossa e muscoli dilaniati da granate esplose dentro improvvisati campi di sterminio. La macchina di morte più efficace continuava ad essere il macete. Fra l’aprile e il giugno del 1994 un milione di esseri umani scomparve così. E molti altri dovevano morire nei mesi successivi, portati via da epidemie, vendette e guerre di conquista nel cuore dell’Africa più bella, la regione dei Grandi Laghi.
Dopo Auschwitz e la Cambogia il concetto di genocidio era tornato d’attualità, ma quello del Ruanda resta di una specie diversa. Per il tempo brevissimo – meno di cento giorni – in cui si consumò l’annientamento di un’intera popolazione. Per il vergognoso intreccio di responsabilità internazionali. Per il senso d’ingiustizia e oblio che perseguita vittime e sopravvissuti. Per le conseguenze che quella tragedia ebbe sul modo di affrontare focolai di crisi del pianeta: dai Balcani alla Cecenia, da Timor Est al Medio Oriente, il Ruanda divenne il paradigma del fallimento delle Nazioni Unite da additare ogni volta che si ponesse il problema di “come” prevenire o medicare altre tragedie.
A 10 anni dall’inizio dei massacri, nemmeno una ricostruzione storica condivisa appaga la memoria e favorisce la riconciliazione del Paese. Non vi hanno contribuito il Tribunale internazionale di Arusha, istituito sul modello di quello per la Jugoslavia e, come quello, troppo lento e paralizzato dalla lettura politica degli eventi per dare risultati apprezzabili, nè una coscienza internazionale troppo attenta allo “scontro di civiltà” di oggi per ricordare il buio della civiltà in cui l’Africa continua a precipitare.
Tutto cominciò la sera del 6 aprile, quando l’aereo del presidente del Ruanda, Habyarimana, venne abbattuto da un missile in fase di atterraggio all’aeroporto di Kigali. Il presidente tornava da una conferenza di pace in Tanzania, ennesimo tentativo di costruire un accordo fra fazioni etniche e politiche del Paese: la maggioranza hutu, al potere, e la minoranza tutsi, esclusa dalla vita sociale e decimata da massacri ed esodi dal tempo dell’indipendenza dal Belgio. Il conflitto fra hutu e tutsi era ed è ancora in atto, a parti invertite, nel vicino Burundi e l’instabilità della regione dei Grandi Laghi avrebbe negli anni successivi smembrato il Congo.
L’abbattimento dell’aereo fu la scintilla di uno sterminio che, sotto gli occhi di un modesto contingente dell’ONU, si preparava da tempo, nutrito dalla propaganda e da generose forniture di armi all’esercito regolare e agli squadroni della morte, addestrati dai duri del regime hutu, decisi a chiudere la partita con i tutsi.
Già nella prima notte, migliaia di oppositori e leader tutsi vennero presi e trucidati, casa per casa. E la caccia all’uomo continuò per giorni in ogni angolo del Paese delle “Mille Colline”. “Dio passa il tempo altrove e chiude gli occhi in Ruanda”, recita un detto popolare. Le liste di proscrizione erano a disposizione degli aguzzini, incitati dai proclami di una radio locale, l’unica che sembrava sapere di che cosa si stesse parlando. L’opinione pubblica internazionale si cullava nel pregiudizio ricorrente sulle tragedie africane, l’ineluttabile ripetersi di “lotte tribali”.
Ma l’eliminazione del presidente hutu, scatenò anche un altro processo, da tempo preparato e sognato: la marcia dei tutsi espatriati verso la conquista del potere. Dal vicino Uganda, da sempre alleato dei tutsi, il generale Paul Kagame, alla testa dei guerriglieri del Fronte nazionale, condusse una spettacolare offensiva fino alla capitale, Kigali. Lo intervistai nel suo accampamento, alla vigilia dell’assalto finale. Prometteva giustizia e riconciliazione, come fa ancora oggi, da presidente eletto con il 90 per cento dei voti, ma la sua avanzata, fra cimiteri e campi di sterminio, fu l’inizio di una pulizia etnica rovesciata.
Più di un milione di hutu fuggirono ai confini del Congo, accampandosi nel paradiso naturale del parco nazionale dei gorilla. Decine di migliaia vennero rinchiusi nelle galere. In quella che potei visitare, i prigionieri erano così fitti da dover rimanere sempre in piedi. La giustizia ordinaria distribuì qualche centinaio di condanne a morte. Quella popolare, nei villaggi, fece il resto, senza cancellare gli spettri che, in molti casi, i sopravvissuti credono ancora di vedere aggirarsi di notte con il macete.
Le Nazioni Unite rimasero a guardare. “Non sono riuscito a convincere il consiglio di sicurezza. C’era una sorta di intesa a non voler intervenire in Rwanda”, è oggi l’ammissione di responsabilità del segretario generale dell’epoca, Boutros-Ghali. Il genocidio annunciato divenne una partita per sfere d’influenza. Gli Stati Uniti videro nell’avanzata di Kagame, un ufficiale che aveva studiato a West Point, la possibilità di diventare i migliori amici dei nuovi padroni dell’Africa francofona, dal Ruanda al ricchissimo Congo. La Francia del presidente François Mitterrand, allora fedele al principio che non si abbandonano i regimi amici, generosi di contratti commerciali e acquisti di armamenti, ritenne invece un dovere proteggere quel che rimaneva del regime hutu, amico e sostenuto militarmente.
La motivazione ufficiale dei francesi fu quella “umanitaria”: arrestare vendette e pulizia etnica. Ma l’operazione “Turqoise” si trasformò in una forza d’interposizione che favorì, con la ritirata dell’esercito hutu, anche l’esodo di aguzzini mischiati alla popolazione dei profughi. All’epoca si disse che l’ambizione di Parigi fosse quella di favorire una spartizione del territorio. La Francia ritenne, senza successo, di modificare un prevedibile futuro: lo sconfinamento delle truppe di Kagame in Congo e nuove vendette contro i profughi hutu. Due anni dopo, il presidente del Congo, Mobutu, sarebbe stato rovesciato dalle truppe ruandesi e ugandesi alleate, in un nuovo conflitto che ha provocato ancora più vittime del genocidio dei tutsi.
A dieci anni esatti, due ricostruzioni della vicenda, simmetricamente contrapposte, s’incrociano proprio a Parigi. Jean-Louis Bruguire, il giudice francese più famoso per le inchieste di terrorismo, ha messo sotto accusa Paul Kagame per l’abbattimento dell’aereo del presidente hutu, attentato finora attribuito agli ambienti del regime contrari agli accordi di pace. L’inchiesta è partita dalla denuncia dei familiari del comandante e del pilota dell’aereo, entrambi francesi.
Un’accusa tremenda che allarga ai tutsi le responsabilità del genocidio: i nuovi padroni del Ruanda, allo scopo di provocare la guerra e conquistare il potere avrebbero coscientemente lasciato la loro gente in balia degli hutu. Bruguire ha raccolto testimonianze e ricostruito la catena di comando. Ha anche scoperto che la scatola nera dell’aereo – reclamata dai francesi – era scomparsa negli archivi delle Nazioni Unite. Il coinvolgimento di Kagame è anche un giudizio d’impotenza sul lavoro del procuratore Carla del Ponte al Tribunale internazionale di Arusha che non ha indagato su responsabilità e vendette dei tutsi.
Un’altra inchiesta, condotta da organizzazioni civili, arricchisce invece i sospetti – già emersi nel lavoro di una commissione parlamentare – sull’operazione “Torquoise”, fino ad interrogarsi sulle responsabilità della Francia nel genocidio per il sostegno militare dato al regime hutu. Su questa linea si è ovviamente schierato Paul Kagame, il quale accusa la Francia anche dell’addestramento degli squadroni della morte.
In attesa di una verità, che forse non si saprà mai, ci sono le parole del generale canadese Romeo Dallaire, che comandava la missione dell’ONU. Un uomo distrutto dal rimorso per non essere riuscito a far ascoltare le sue grida di allarme. “L’ONU era sotto il giogo di Stati Uniti e Francia che hanno fatto di tutto per ostacolare la missione e hanno finito per favorire il genocidio”. Da allora, la Francia invoca la legalità internazionale e gli Stati Uniti ritengono più efficace fare da soli.
Sul fiume Kagera, 1994
Il cimitero galleggiante vomita teschi e arti umani, corpi di bambini torturati, naso e orecchie tagliate, uomini in divisa con le mani legate dietro la schiena. Il fiume Kagera attraversa il Ruanda e trascina cadaveri da Kigali nel lago Vittoria, al confine con l’ Uganda. È diventato un immenso cimitero d’acqua. Pescatori e volontari sono al lavoro, a bordo di lunghe piroghe. Alcuni pescano il tilapia, il lungo pesce locale, al largo, nelle acque del lago, distesa verdastra, circondata di spiagge e foreste. Non possono farne a meno nonostante i divieti. “Mangiamo pesce, vendiamo pesce per mangiare”, dicono. Altri recuperano cadaveri, lungo la corrente. Usano le stesse reti, gli stessi uncini. La scena e’ orrenda e surreale, fra resti umani e teste di pesce appena pulito, l’ odore tremendo della decomposizione e il fumo dei fornelli accesi per la cena. Quando arrivo, ci sono una decina di corpi avvolti alla meglio nel cellofan. Spuntano teschi e ossa. Sulla riva, galleggia un corpicino, gonfio, sbiancato, quasi intatto, ma senza testa. Troncata di netto da un colpo di machete. Lo tirano su, trascinandolo per un piede. Da una piroga ne scaricano altri otto, pescati al largo. Alcuni volontari sono muniti di mascherina e guanti di gomma, ma alcuni ragazzi operano a mani nude. La quantità dei morti, e il loro stato rende tutto ripetitivo e indifferente: per i carnefici in Ruanda e per i becchini in Uganda. Il governo di Kampala ha inviato decine di camion e bulldozer per scavare fosse comuni. Si lavora anche di notte, con le cellule fotoelettriche montate accanto alle povere capanne dei pescatori che la luce artificiale non l’ hanno mai vista. Dalla lunghezza dei corpi si riconoscono ragazzi, donne e bambini che sono la maggioranza. L’inviato del governo Alex Apecu è preciso nelle statistiche: “Abbiamo pescato fino a 67 morti in un’ ora”.
Per raggiungere il quartier generale del il Fronte patriottico ruandese, percorro una strada tortuosa e sterrata che attraversa, come nell’ ovatta, le verdi colline del Ruanda confusa dalla nebbia bassa. Soldati con divise precarie, scarpe da tennis e kalashnikov a tracolla montano la guardia a Mulindi, una ex piantagione del te’ trasformata in accampamento militare. Poche casupole diroccate, con il tetto di lamiera, un piccolo spaccio alimentare dove si comprano biscotti e detersivi, una baracca che ospita una decina di osservatori dell’ Onu. Non c’ e’ acqua potabile e il pranzo e’ un piatto di fagioli e riso. Qui risiede il leader politico del Fronte, Alexis Kanyarengwe, un hutu in passato ministro della Difesa del Ruanda, poi esule in Tanzania e Uganda. Con il suo braccio militare, Paul Kagame, ha raccolto una forza di 14 mila uomini. Questa “Svizzera” insanguinata, con distese di eucalipto e campi da te’ e bananeti, e’ un deserto silenzioso, gli esseri umani sono quasi scomparsi. I superstiti dei massacri sono concentrati nei campi profughi vicini al confine, i morti nelle fosse comuni che si scorgono un po’ dovunque. Ma il lavoro dei becchini continua. Scontri ed esecuzioni si ripetono nella zona controllata da quel che resta dell’ esercito governativo, decimato dagli scontri e dalle diserzioni. A Byumba, visito l’ ospedale, allestito nella scuola. Lavagne e disegni degli scolari vegliano pianto e lamenti dei feriti ammassati. L’ aritmetica del genocidio fa dimenticare decine di migliaia di feriti, in gran parte bambini. Ma qui si vedono mutilazioni così orrende da rendere preferibile la morte. Molti bambini hanno le dita e le mani mozzate di netto dal machete: i colpi erano diretti alla testa, hanno perso dita e mani per proteggersi. Altri mostrano profondi squarci alle gambe e alle caviglie, secondo una tecnica che si ripete da queste parti: i tutsi, cioe’ i “lunghi”, devono essere accorciati e comunque gli deve essere impedita la fuga. Mark Rughenera, ex ministro delle Finanze e ora fra i dirigenti del Fronte, rievoca la notte del 6 aprile. “La guardia del presidente aveva catturato ministri e uomini politici dell’ opposizione hutu casa per casa. Cinque ministri sono stati uccisi. Io mi sono nascosto per due settimane, prima di raggiungere il Fronte con mia moglie e un bambino. Di due miei figli non so piu’ nulla”. Philipe Kaianga, un soldato che ha visto l’ esecuzione dei genitori e di cinque fratelli, non aveva sentimenti di vendetta: “Combatto per far finire questa guerra, non per dare la caccia agli assassini. Sono ragazzi come me, anche se vivevamo in una specie di apartheid. Bar e compagnie separate. A Kigali eravamo preparati al peggio. Ma non c’ e’ stato il tempo di fuggire”. Rusang, Simon e Durek, tre ragazzi, sfigurati dai colpi alla testa e al collo, mostrano i moncherini e raccontano come sono riusciti a scampare al massacro. “La milizia e’ entrata nelle case. Sono state controllate le carte d’ identita’ e tutti i tutsi del villaggio sono stati raccolti sulla piazza e finiti a colpi di mitra e di machete. Ci siamo nascosti fra i cadaveri dei genitori, delle sorelle e dei parenti. Immobili per tre giorni, fino a quando i soldati si sono allontanati”. Hanno perso molto sangue, sono arrivati a Byumba stremati, sopravviveranno orfani e mutilati. Un contadino, Felicen, nella chiesa affollata da feriti e fuggiaschi, ha ritrovato dopo un mese tre dei suoi figli: “Mia moglie e altri due bambini sono stati uccisi in casa dagli uomini della milizia. I vicini di casa ci hanno denunciato perche’ siamo tutsi”. Marie Therese, una infermiera, racconta il terribile ruolo dei sanitari costretti ad amputare gambe, braccia e mani: le ferite da machete non curate per giorni provocano la cancrena. Nell’ ospedale mancano antibiotici, bende, sterilizzanti e scarseggia anche l’ acqua. I bambini sono orfani. Decine di migliaia, secondo stime che cambiano di giorno in giorno. Nel campo profughi di Rutare, ce ne sono almeno quattromila, sparsi nell’ enorme folla disperata. Sessantamila esseri umani accampati nella boscaglia attendono i soccorsi: dormono per terra e anche qui mancano cibo, acqua e medicinali. La malaria e la tubercolosi stroncano le residue resistenze. Un popolo sfiancato dalla fuga dai campi di sterminio sembra arrivato qui solo per morire in pace. La fredda notte del Paese delle mille colline ne porta via a decine.
Il comando del Fronte era l’ unica zona del Ruanda dove non si spargesse sangue. Attorno alla capitale l’ esercito regolare organizzava una controffensiva. Le bande e la guardia governativa erano incitati da una stazione mobile: radio libera “mille colline” da un belga di origine italiana. Un milione e mezzo di persone aveva abbandonato le proprie case. Un terzo aveva passato il confine con la Tanzania. Jean De Bekker, un missionario da diciotto anni in Ruanda mi disse: “E’ uno scontro di potere preparato da almeno due anni e fomentato dai Paesi vicini. Le armi sono arrivate dall’ Europa, dall’ Egitto, dal Sudafrica. Ho visto con i miei occhi nei villaggi la distribuzione delle armi alla milizia civile che si addestrava al massacro”. Si segnalavano i primi casi di colera. Per i sopravvissuti, la sentenza era rinviata di qualche giorno. Il genocidio era ingigantito anche da fame e malattie che devastavano decine di migliaia di sfollati. Alcuni si suicidavano, per non aspettare la fine, e uccidevano mogli e figli, per non lasciarli in balia dei rivali. Qualche famiglia formata da matrimoni misti fece un patto con i propri carnefici: consegnare i parenti all’ etnia rivale per salvare il coniuge e i figli. A Butare, al confine con il Burundi, intere famiglie vennero state bruciate vive nelle loro case. Donne, vecchi e bambini vagavano a migliaia alla ricerca di una via di fuga, spesso preclusa da continui capovolgimenti di fronte: dove prevaleva una banda tutsi si facevano a pezzi gli hutu, dove arrivavano gli hutu era la fine per i tutsi. Tutti pagarono il prezzo di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. La carta di identità dava diritto alla momentanea sopravvivenza o era il biglietto d’ingresso alla fossa comune.
L’ apocalisse aveva il colore del sangue che intorbida le acque, del fango che sommergeva i cadaveri e l’ odore della decomposizione. Il cuore dell’ Africa, il mito delle sorgenti del Nilo, era a pezzi a colpi di machete. Gli epigoni di Hitler e di Pol Pot lanciavano appelli alla soluzione finale: uccidete anche i bambini, non corriamo il rischio di dover usare ancora il machete fra qualche anno. Questa volta il conflitto etnico era però’ una spiegazione riduttiva. Era in atto uno scontro politico fra classi sociali e militari composte da entrambe le etnie, fra i fautori di un processo democratico ormai abortito e i sostenitori di antichi e consolidati privilegi oligarchici. E i signori della guerra avevano trovato appoggi in Occidente e sostegni dai Paesi vicini, interessati alla destabilizzazione dell’ area. Si volevano evitare la conciliazione nazionale e la crescita di un laboratorio di democrazia. Le vittime erano soprattutto civili, moderati, intellettuali, professori, studenti. Gli squadroni della morte formati da hutu e la Guardia nazionale erano da tempo perfettamente addestrati. Il Fronte patriottico dei ribelli, formato da tutsi ma anche da hutu, aveva basi militari in Uganda, dove molti espatriati avevano persino servito nell’ esercito di Kampala.
Anche la Chiesa, la Chiesa di un Paese dove i cattolici sono quasi quattro milioni, il 44 per cento della popolazione, divenne vittima, ostaggio e motivo di orrende vendette. Ventidue i religiosi trucidati, fra questi, l’ arcivescovo di Kigali. Le chiese e le missioni assaltate, date alle fiamme, divennero in grandi bare dopo essere state l’ ultimo rifugio per sfuggire alla furia omicida. I testimoni di un messaggio evangelico al di sopra delle parti vennero sacrificati dalle parti stesse, in una spirale di vendette. Il massacro del vescovo di Kigali, Vincent Nsengiyumva, del presidente della conferenza dei vescovi e del vescovo di Byumba, si consumò alla periferia di Gitarama, la capitale provvisoria del governo, assediata dai ribelli. I tre vescovi, oltre ad una decina di religiosi, erano prigionieri e ostaggi del Fronte. Fra i ribelli covava un forte sentimento di rancore nei confronti degli alti prelati, “colpevoli” di aver appoggiato il governo provvisorio e di aver auspicato la riconciliazione fra le parti, senza aver considerato anche le ragioni del Fronte. Un giudizio che metteva a rischio anche missionari e volontari “colpevoli” di operare nell’ uno o nell’ altro campo. L’ emittente del Fronte ammise l’ eccidio e pometteva la punizione dei responsabili. Un altro massacro avvenne a Nyamirambo, alla periferia di Kigali. Nove preti e settanta civili trucidati dalla milizia governativa. Fra le vittime, anche suore. Le milizie avevano passato per le armi religiosi considerati vicini all’ etnia tutsi. Missionari e civili che non riuscirono a fuggire in tempo lanciavano appelli via radio che arrivavano troppo tardi.
La caduta di Kigali
A Kigali, i ribelli si fanno fotografare nella camera da letto del presidente assassinato. Nella mistica della guerriglia li chiamano gli “inkotany”, gli arditi che cantano in coro le canzoni degli esiliati ruandesi, in Belgio incise su compact disc. Sono ragazzi con il kalashnikov a tracolla, sdraiati dove Juvenal Habyarimana ha dormito nei 17 anni del suo regime. I rottami dell’ aereo abbattuto il 6 aprile si trovano sparsi anche in giardino. Dall’ esterno la costruzione in buono stato. Dentro, sparsi, documenti, oggetti. C’e’ anche un messaggio del Papa, l’ augurio per la pace e l’ armonia. Si combatte quartiere per quartiere e il centro della citta’ , dove si trovano la televisione e la Prefettura, è in mano ai governativi, appoggiati da un fitto fuoco d’ artiglieria dalle colline. Si contano altri morti fra i civili. La capitale e’ divisa, la linea del fronte e’ sulla strada per l’ aeroporto, dove si trovano il comando dell’ Onu e l’ Hotel Meridien, centro di raccolta di profughi e giornalisti. E il punto più conteso, dove passa la strada per Gitarama, ultimo rifugio del governo provvisorio.
L’ albergo e’ stato duramente colpito. Vetri infranti e mura sbrecciate. Nel giardino tropicale in rovina, attorno ai campi da tennis e alla piscina svuotata, ci sono i profughi piu’ fortunati, perche’ ricevono le razioni militari dell’ Onu. Attorno macerie e case abbandonate. Solo mosche e carogne di animali popolano gli uffici delle compagnie e delle societa’ straniere, per lo piu’ francesi e belghe, qualche residenza diplomatica e le ville adagiate su dolci colline. La carcassa di un bufalo monta la guardia all’ ingresso dell’ aeroporto. La notte scorre in compagnia dei suoni della battaglia. Granate che si abbattono sulle case, le scie dei colpi che illuminano il cielo e, soprattutto, il fuoco dei fucili mitragliatori, il segnale di scontri molto ravvicinati. Nessuna strada e’ sicura, i cecchini sono in agguato. Anche gli automezzi bianchi dell’Onu vengono colpiti. Migliaia di civili sono rifugiati allo stadio e migliaia s’ incamminano lungo la strada che porta a Byumba, verso il confine con l’Uganda. In fila indiana, con le poche povere cose che hanno salvato, portate sulla testa, trascinate a piedi scalzi, affastellate sui carretti. Ci sono bambini, nudi e in lacrime, che vagano da soli, tendendo la mano ai camion dei guerriglieri che risalgono verso la capitale. Esausti, i profughi si accampano sul ciglio della strada, accendono fuochi di frasche e rifiuti. E un esodo spaventoso, per raggiungere accampamenti di altri rifugiati, dove gli aiuti umanitari non riescono ad arrivare. Per ragioni di sicurezza, i convogli dei soccorsi devono percorrere mulattiere sterrate e ogni giorno le vite piu’ deboli si spengono. Due camion della Croce Rossa distribuiscono sacchi di farina. E la fila dei disperati si allunga, ingrossata da quanti lasciano le capanne di frasche sulle colline. Si allineano sotto il sole, tenuti a bada dai guerriglieri, in attesa del proprio turno. Sono soprattutto donne, vecchi e bambini. I giovani civili, nei villaggi del Ruanda massacrato, non esistono piu’. Soltanto ragazzi in divisa governativa e guerriglieri del Fronte che saranno presto il nuovo potere. Disciplina e organizzazione sopperiscono all’ equipaggiamento precario: vecchi mitra, jeep giapponesi, qualche camion malridotto e ricetrasmittenti. Armati all’ antica, stanno combattendo la più classica delle guerriglie : contano il controllo del territorio e la mobilità, oltre alle pubbliche relazioni che garantiscono i primi contatti diplomatici. Il segno di riconoscimento sono gli stivali di gomma neri. Il resto della divisa e’ abbastanza fantasioso, baschi neri, gialli, rossi, sciarpe, berretti da rangers.
C’era chi si e’ arruolato per caso, come Alexander, iscritto in un’ università di Parigi. Era tornato in Ruanda per le vacanze di Pasqua, per riabbracciare i suoi cari. Non ha potuto nemmeno seppellirli: un padre, una madre, due fratelli, una sorellina, scomparsi nel nulla. “Non so nemmeno se li ha uccisi il mitra o il machete”. Sognava una vita in Francia, Alexander, o un posto nella classe dirigente del Ruanda. “Non ho sentimenti di vendetta. Dobbiamo imparare a vivere in pace”. Patrik Kayranga, figlio dell’ ex ambasciatore ruandese in Italia, mi scortò fuori da Kigali fino al confine, saltando sulle buche con la sua piccola “Peugeot 205”, come se partecipasse ad un rally. Lo pregai di rallentare, perche’ la mia jeep aveva ormai poca benzina: “Per i primi 10 chilometri e’ piu’ sicuro correre”, rispose. Aveva visitato l’ Italia, prima di andare a studiare in Canada. “Mio padre era un Tutsi ed e’ stato ucciso. E adesso sono qui a combattere”. Addio, Patrik, sottotenente del Fronte, e buona fortuna.
Kagame, il nuovo padrone
Trentasette anni, l’aspetto da professorino di matematica quale in effetti era prima di fare il soldato, il generale Paul Kagame era il capo dei ribelli dell’ Fpr, il Fronte patriottico ruandese che stava conquistando il Paese dopo sette settimane di guerra civile e di massacri: almeno mezzo milione di morti e 1,5 milioni di sfollati su 8 milioni di abitanti. Mi ricevette nel quartier generale alla periferia di Kigali nelle ore in cui il fronte assediava la capitale: un appuntamento concordato tre giorni prima con i guerriglieri, i quali mi avevano scortato lungo piste ormai sotto il loro controllo. Per una notte mi ospitarono a Gahini, nei pressi dell’ospedale che traboccava di feriti e mutilati. Chiesi : il genocidio il prezzo della vittoria? “Le vittime sono la conseguenza della storia politica del Ruanda. Dovevamo eliminare una dittatura assoluta e permettere il rientro in patria di piu’ di un milione di esuli. Anch’io ho dovuto lasciare il Paese quand’ ero bambino. Questo non e’ uno scontro tribale, come pensano molti in Europa, ma una guerra di liberazione. La gente e’ dalla nostra parte, perchè ha capito che senza diritti non ha senso vivere”. Le stragi di donne e bambini, di decine di migliaia di civili, potevano essere evitate? “Il Fronte non e’ responsabile dei massacri. Sapevamo che il governo e la guardia presidenziale si stavano preparando a eliminare l’ opposizione politica e i gruppi sociali avversari del regime. E lo sapevano anche gli osservatori internazionali che sono stati incapaci di intervenire. Accuso la Comunità internazionale e accuso soprattutto la Francia che ha fornito armi e addestramento alla milizia”. E chi sostiene e arma il Fronte?”Gli esuli ruandesi in l’ Africa e in Europa finanziano il movimento. Comperiamo armi e munizioni al mercato nero. Recentemente abbiamo acquistato una partita in Somalia. Non siamo ribelli con un colore politico, ma un movimento patriottico”. Cercai di ribattere : la maggior parte delle vittime appartiene all’ etnia tutsi, alla sua gente, ma anche i suoi soldati non sono stati a guardare : “Bisogna distinguere fra chi ha ucciso in battaglia e chi ha compiuto atrocità sui civili.” Accetterà un’ inchiesta internazionale? “A braccia aperte. Ma gli osservatori dovrebbero indagare anche sui crimini commessi in passato dalla classe dirigente: un’ oligarchia senza scrupoli che ha badato a conservare il potere a qualunque prezzo”. Il presidente assassinato aveva sottoscritto accordi che avrebbero dovuto portare alla riconciliazione nazionale: “Soltanto sulla carta. Come sempre in passato. Sull’ attentato circolano varie ipotesi. Un complotto del Belgio e degli americani per eliminarlo e, ovviamente, c’ e’ chi sospetta una nostra azione, ma io credo che il piano sia opera delle fazioni più conservatrici”.
Così, agli ordini di Kagame, i tutsi tornavano al potere, come in passato, quando erano i re del Ruanda. Il generale disse : “Il presidente del fronte e’ un hutu. Io sono tutsi, ma migliaia di militanti sono hutu. In passato non governava l’ etnia tutsi, ma, come in questi anni, un piccolo clan che esprimeva il re. Noi cerchiamo di costruire un vero movimento nazionale che rappresenti tutti, che esprima un’ identita’ di ruandesi, senza distinzione. Parliamo la stessa lingua, pratichiamo la stessa religione. Il conflitto non e’ etnico, ma economico e politico”. Come spiega tanta bestialita’ in uno dei popoli piu’ miti e ospitali dell’ Africa? “La gente e’ stata tenuta nel sottosviluppo ed e’ stata educata a odiare sino a comportarsi in modo primitivo. Ma sono convinto che la riconciliazione nazionale sia possibile, se ci saranno sviluppo economico e democrazia”.
Tutti i capi guerriglieri promettono le stesse cose prima di conquistare il potere. Intanto il Ruanda ricordava la Cambogia di Pol Pot. “Chiedo di essere messo alla prova. Noi vogliamo un sistema democratico e il libero mercato. Ci sara’ un periodo di transizione per preparare libere elezioni. Intanto siamo pronti a dialogare con tutti, anche con i nostri avversari piu’ decisi”. Anche con i capi della guardia presidenziale? “Con tutti, ma non con gli assassini che sono soprattutto i responsabili politici del governo. Chi ha programmato il genocidio dev’ essere punito”. Quale sara’ il futuro di Paul Kagame? “Sinceramente vorrei dedicarmi alla vita privata, a mia moglie e ai miei due figli che vivono a Bruxelles. Ma sono un soldato e questo e’ il mio dovere. Non credo che entrero’ in politica, ma ora non ho tempo di pensare al mio futuro”. La jeep “tecnica” con la scorta lo aspettava. Il generale, divisa senza mostrine, andò in prima linea, a confermare la sua fama di duro e fanatico della disciplina, nonostante i modi gentili e la voce sommessa. Oggi è ancora al potere, con il cento per cento dei voti.
Fra i prigionieri hutu
Sono poveri e disperati come quelli che hanno ucciso e martoriato, come quelli che muoiono nei campi profughi, stremati dalla malaria e dalla fame. Tremano, allineati e seduti, spalle al muro di una casa diroccata alla periferia di Kigali. Piedi scalzi, le mosche che danzano attorno agli occhi fissi nel vuoto. No, non sembrano mostri, non ricordano spietati ufficiali nazisti, ma larve umane: eppure capaci di fare a pezzi i vicini di capanna, gli amici del villaggio, persino i fratelli. Ecco alcuni dei protagonisti del genocidio, i criminali della milizia presidenziale catturati dai guerriglieri del “Fronte patriottico ruandese”, che ha ormai il controllo del Paese. La “prigione” e’ in un quartiere di Kigali abbandonato. Case sventrate, rottami di auto, cani randagi e topi che frugano nelle stanze vuote e fra i rifiuti. I soldati fanno uscire da una baracca 19 uomini e due donne, presi mentre fuggivano, indicati dai parenti delle vittime che li hanno riconosciuti nei campi profughi. Sono quasi tutti dell’ etnia hutu, rivelano l’ arruolamento nella milizia, l’ addestramento allo sterminio, il loro modo di uccidere, usando il bastone e il machete. Per quanto esposta dal nuovo potere, e’ comunque una prova di un massacro pianificato. In questa Norimberga africana, fra i cadaveri ancora da seppellire e la miseria infinita dei sopravvissuti, ammettono quasi in coro le loro colpe: “Si’ , abbiamo ucciso, abbiamo tagliato e bastonato”. Unica attenuante: “Siamo stati costretti a farlo”. Quanti ne avete uccisi? “Io cinque, io due, io tre…” e cosi’ sia. Sembrano rassegnati a subire processi e vendette, estraniati dalla loro stessa vita che, in Ruanda, non ha piu’ senso per nessuno. “Ci danno da mangiare, nessuno per ora ci ha fatto del male”, dicono. Maria Devota Mukazitoni, 24 anni, una donna minuta, avvolta in uno scialle colorato, confessa l’ eliminazione a bastonate di tre persone, due vecchi e una donna: “Mi odio, mi sento una bestia e spero solo che mi perdonino per quello che ho fatto. Ma sono stata costretta. I soldati li avevano gia’ feriti e mi hanno obbligato a finirli con un bastone”. Inbonagata, un ragazzo hutu di 16 anni, adesso piange e dice che di notte non riesce a dormire. Come puo’ dimenticare di aver tagliato con il machete i genitori dei ragazzi con i quali giocava nel suo villaggio, distretto di Gahindi? “Il primo che ho ucciso si chiamava Emanuel, un contadino come me. Aveva otto figli e anche loro sono stati eliminati. L’ ho colpito piu’ volte con il bastone. Di notte sento ancora le sue urla. Mi sento male per quello che ho fatto, ma i soldati mi hanno costretto. Ho ucciso per paura. Ma posso riconoscerli, denunciarli. Gli ufficiali della milizia sono i veri colpevoli. Noi non avevamo scelta”. La stessa versione, la stessa ricerca di attenuanti. Numerose testimonianze riferiscono pero’ che la milizia ha anche ucciso per denaro, per impadronirsi della casa o del bestiame delle vittime. A molte persone e’ stata offerta la scelta fra la pallottola e il machete in cambio di soldi. Joseph, 74 anni, confessa l’ esecuzione del fratello. “Noi siamo tutsi e quelli della milizia ci davano la caccia. Quando sono entrati nella nostra casa hanno subito sparato a mio fratello. Era steso a terra e perdeva sangue dalla testa. Finiscilo o ti ammazziamo, mi hanno ordinato. L’ ho bastonato con tutta la forza che avevo in corpo, perche’ morisse subito, per non farlo soffrire. Poi i soldati mi hanno obbligato a seguirli. Andavano nei villaggi, casa per casa, e uccidevano tutti quelli che trovavano. Sono riuscito a fuggire, a nascondermi nella boscaglia lungo la strada”. Turatzine, 27 anni, arruolato nella milizia, ha l’ aspetto e lo sguardo del killer, ma anche lui ripete che e’ stato costretto, che la guardia nazionale arruola e insegna a uccidere. “Ho ammazzato sia tutsi sia hutu. Cinque persone. Li conoscevo. Prima della guerra, nel nostro villaggio, vivevamo in armonia. Erano miei vicini di casa. I soldati sparavano nel mucchio e io li ho finiti con il machete. Il capo del villaggio mi aveva insegnato ad usare il machete”. Per Mugyezi, 38 anni, l’ addestramento all’ omicidio e’ cominciato sul campo d’ azione: “La milizia aveva le liste delle persone da catturare. I soldati ci hanno portato davanti tre prigionieri e ci hanno insegnato come ucciderli. Bastonate e tagli con il machete. Cosi’ ho imparato a colpire e a uccidere. Ho ammazzato sette persone, molti miei amici. Per alcuni bastavano due colpi, per altri almeno cinque”. Juliana, l’ altra donna prigioniera, 37 anni e sette figli, e’ il simbolo di questo Paese degli orrori, dell’ odio, dell’ apartheid fra disperati. Durante gli scontri ha perso il marito. Fuggiva con il suo bambino piu’ piccolo legato alla schiena. I soldati l’ hanno inseguita e picchiata. Picchiavano sulla schiena e hanno ucciso il bambino. “Nel villaggio c’ erano molti tutsi prigionieri. I soldati mi hanno indicato due vecchi. Devi uccidere questi, mi hanno ordinato. Uno era mio vicino di casa. Adesso sono sola, non ho piu’ niente e nessuno. Sono nelle mani di Dio. Se un giorno la mia gente vorra’ perdonarmi tornero’ al villaggio. Forse accetteranno che io viva ancora fra loro. Nessuno ha voluto questa guerra, eppure ci siamo ammazzati come bestie feroci”.
Nelle celle di Kigali, un anno dopo
Il feto e’ sepolto in una scatola di cartone che lo protegge dallo strato di liquami ed escrementi. Accanto alla scatola, sdraiate per terra, la madre e altre donne, molte stuprate dai militari e dai guardiani. Jaqueline accarezza il pancione di sei mesi, dono di tre soldati nella caserma di Kigali, la notte in cui e’ stata arrestata. Teresine non e’ incinta perche’ ha sessant’ anni, ma tredici soldati se la sono presa come trofeo di guerra. Raccontano di pestaggi e incursioni notturne, mostrano piaghe e ferite. Attorno, altri bambini, aggrappati a seni esausti, sfiniti dalla polmonite e dalla dissenteria. Madri e figli sono ammassati in un corridoio, sul quale si affacciano altre stanze gremite. Cosi’ si nasce e si muore nel reparto donne della prigione di Kigali, un girone, nemmeno il piu’ orrendo, dell’ inferno che, con il permesso delle autorita’ , ho potuto visitare. Permesso accordato dal ministro di Grazia e giustizia e cosi’ motivato: i prigionieri sono accusati di genocidio; senza punizione esemplare non ci sara’ mai pace in Ruanda ma soltanto vendette e nuovi massacri. I processi saranno regolari, assicurano i vincitori della guerra civile dello scorso anno, ma, essendo pochi i giudici sopravvissuti ai massacri, per 30 mila prigionieri la condanna e’ gia’ pronunciata: una lenta agonia che fa sembrare piu’ umano un lager nazista. Come ad Auschwitz, i prigionieri si dividono loculi a strati, in stanze buie e senz’ aria. La scorsa settimana, nella prigione di Muhima, una ventina sono morti per soffocamento. La conquista del loculo o di un gradino consente di stare sdraiati o seduti e di evitare la pena inflitta alle migliaia che se ne stanno notte e giorno nel cortile, seminudi e in piedi, inzuppati di pioggia, costretti a muoversi a turno. I piedi, piagati e affondati negli escrementi, sembrano scoppiare dal gonfiore e dalle piaghe e soltanto a chi sta per morire e’ concesso sdraiarsi. Le malattie ne portano via trecento ogni mese, ma un centinaio, in fila e ammanettati, attendono ogni giorno di entrare. Ottomila sono i prigionieri di Kigali, seimila a Gitarama, l’ altra prigione visitata, un lager piu’ piccolo e . se possibile . ancora piu’ inumano. A Kigali, almeno, non manca l’ acqua. Qui, c’ e’ una doccia per seimila reclusi. Per conquistare la razione quotidiana di polenta e fagioli ci si mette in fila all’ alba, con brevi spostamenti di gruppi a incastro: gli ultimi mangiano a notte fonda. Lo stesso avviene per i bisogni corporali, secondo un’ incredibile autoregolamentazione della sofferenza. Per i malati di dissenteria, il luogo di detenzione e’ direttamente la latrina. Cammino fra due file di prigionieri che si pigiano e si comprimono per farmi passare. Rischio di calpestare piedi, teste, lamenti e ferite che affiorano dal liquame e dai rifiuti. Alcuni mostrano ferite da baionetta, cicatrici ai polsi e alle braccia, i segni del filo di ferro che li ha tenuti legati. Altri, impazziti, sono rinchiusi nella cantina. Non ci sono segnali di protesta ne’ di ribellione, ma una rassegnata sofferenza e un’ infinita pena, come ebrei neri che si preparano a scomparire, selezionati dalla sconfitta e dalla delazione. Fra i detenuti di Kigali e Gitarama ci sono professori, intellettuali, medici, alti funzionari del vecchio regime, qualche suora e diversi sacerdoti: i rappresentanti di una classe dirigente sconfitta, tutti accomunati dall’ appartenenza all’ etnia hutu e dall’ accusa di genocidio. Molti, per stessa ammissione del governo, sono probabilmente innocenti, ma e’ bastata la denuncia di un vicino, il tradimento di un compagno di scuola, il sospetto per entrare all’ inferno e lasciare tutto ai nuovi padroni del Ruanda che, proprio con l’ accusa di genocidio, legittimano il potere. Aloise, insegnante, eletto dai detenuti responsabile dell’ ordine interno nel carcere di Kigali, protesta come tutti la propria innocenza. “Sono stato portato via in luglio. Mi hanno interrogato in gennaio. Poi, piu’ nulla”. Joseph, giovane ingegnere, oppositore del vecchio regime e nominato viceministro per il turismo dai vincitori, si e’ trovato la polizia in casa in ottobre: “Qualcuno si e’ domandato perche’ ero sopravvissuto mentre i miei vicini erano stati uccisi. E questa e’ la mia colpa”. Manda un messaggio alla moglie, una pediatra: “Sono ancora vivo, ma fammi arrivare medicine”. A Gitarama, i detenuti raccontano che la visita dei parenti e’ concessa una volta la settimana, ma che non c’ e’ il tempo materiale ne’ la possibilita’ fisica di arrivare al portone. Nessuno ha mai visto un avvocato e nemmeno un difensore d’ ufficio. Gli interrogatori sono condotti da militari o da coloro che dovrebbero entrare nella futura struttura giudiziaria del Paese: “Dai nostri aguzzini di oggi”. Nabisundu ha fatto per trent’ anni il magistrato. Adesso e’ rinchiuso, nella stanza delle autorita’ , con un prefetto e qualche funzionario. Stessi loculi, stesso fetore e caldo soffocante, ma anche il lager riproduce le gerarchie. “Il vecchio regime faceva almeno processi regolari. Oggi ci condannano in blocco, ma la verita’ e’ che in una guerra civile tutti i contendenti sono responsabili. C’ e’ chi ha ucciso per vendetta e chi ha ucciso per difendersi. Con l’ accusa di genocidio, i vincitori diventano tutti innocenti e noi tutti colpevoli”. I veri criminali, i capi dell’ esercito e delle milizie sono all’ estero o nei campi profughi dello Zaire e del Burundi dove si addestrano per la rivincita. Senza piu’ usare le armi, i tutsi conducono una sorta di nuova pulizia etnica. Il Ruanda, decimato dai massacri, e’ oggi ripopolato da esiliati tutsi, mentre gli hutu stanno nelle campagne, nei campi profughi di confine o in prigione. Joseph, uno dei sacerdoti rinchiusi, e’ accusato di connivenze con il regime. “Ho difeso gli uni e gli altri, ho cercato di salvare tutti. La mia sola colpa e’ di essere sopravvissuto”. Vorrebbe dir messa in questo stanzone soffocante, ma gli e’ stato impedito. “Che inferno e’ mai questo se rinchiude gli innocenti?”. A nulla sono per ora serviti gli appelli della Chiesa ruandese e le denunce delle Nazioni Unite. Il governo concede soltanto l’ intervento della Croce Rossa e delle organizzazioni umanitarie . proprio ieri, una delegazione della Caritas italiana ha chiesto di poter portare assistenza sanitaria . ma e’ irremovibile “sulla detenzione dei presunti responsabili dei massacri”. “Non abbiamo mezzi per soluzioni diverse”, ripete il vice primo ministro e presidente del Fronte popolare ruandese (l’ ala militare del nuovo potere), Alexis Kanyarengwe. Nemmeno un lager con filo spinato, nemmeno lo stadio di Pinochet sono considerate soluzioni possibili. Anziche’ celebrare una Norimberga africana, il nuovo regime vorrebbe come processare tutto il Terzo Reich, dai soldati ai bambini. Anche loro devono pagare, come questo orfano di sette anni, i genitori uccisi durante la guerra, ora accovacciato a scoppiare di tosse nel suo loculo sempre buio. Nome di battesimo, Innocent.
Nel campo profughi degli hutu
Attorno al lago Kivu, l’ infinita e uniforme distesa di tende e miseria – il milione di rifugiati della guerra in Ruanda – nasconde fenomeni che condizioneranno a lungo il futuro dei Paesi coinvolti: lo Zaire che ospita i rifugiati, lo stesso Ruanda e il vicino Burundi. Nuovi conflitti e nuove tragedie sembrano inevitabili: anche se i cadaveri sono stati seppelliti, c’ e’ un senso permanente di decomposizione. A un anno esatto dall’ inizio dei massacri e delle fughe bibliche, lo scenario e’ cambiato. Non piu’ morti di fame e di colera, ma un baby boom e un livello di assistenza alimentare e di servizi sanitari superiore a quello della popolazione locale zairese che, a seconda dello strato sociale, vive i profughi come un affare o come una guerra fra miserabili. Alberghi e tassisti triplicano i prezzi in dollari, mentre i bambini dello Zaire muoiono senza vedere i medici e i volontari bianchi impegnati nella tendopoli. Per quanto ridotte a mille calorie al giorno, una parte delle razioni distribuite dalle organizzazioni umanitarie viene stoccata e commercializzata dai gruppi che si combattono per il controllo dei campi: i militari dell’ ex esercito ruandese, le milizie hutu e i soldati zairesi che, non essendo praticamente pagati dal governo, hanno mano libera nella zona. La massa dei disperati si e’ trasformata in stabilita’ della disperazione: una “citta’ ” si e’ riprodotta sotto le tende. Sindaci, prefetti, capi villaggio amministrano servizi e aiuti. Si puo’ trovare di tutto: la farmacia e il parrucchiere, il sarto e il calzolaio, il forno e l’ officina, bar e persino discoteche. In questa “striscia di Gaza” nel cuore dell’ Africa, il popolo hutu in esilio ha improvvisato attivita’ e commerci: il piu’ fiorente e’ il mercato del legname, con un impatto spaventoso sulla natura. Come formiche, i rifugiati si spostano a migliaia dalle tende alla citta’ , dalle foreste ai mercati: vendono, coltivano, cercano lavoro, competono in questo infernale girone di miserabili che crea reazioni a catena, microcriminalita’ , vendette, omicidi, racket. E mentre a Kigali il nuovo potere tutsi celebra la vittoria e commemora oggi l’ inizio del genocidio, nei campi dei rifugiati di Goma e Bukavo si preparano rivincite e vendette. La follia di questa guerra rende ancora piu’ folle l’ ipotesi di una riconciliazione. Quasi ventimila soldati dell’ ex esercito governativo e miliziani hutu – ancora con le divise, per quanto lerce e stracciate – restano fedeli al governo in esilio e al sogno di riconquistare il Ruanda. Soltanto in parte disarmati e privati dell’ equipaggiamento pesante, si addestrano, si riuniscono, organizzano incursioni oltre confine e razzie di bestiame, obbligano i vincitori all’ allarme permanente. Ministri e capi militari vivono in una tendopoli appartata e in un collegio protestante di Goma. Il piano e’ di riprendersi almeno un pezzo di Ruanda per poter avviare una trattativa. Dopo aver fatto sterminare i tutsi, adesso si sentono vittime della pulizia etnica. E non hanno tutti i torti, in questo rovesciamento etnico delle parti. “Non vogliamo riprendere il potere . dice Stanislas Mbonampeka, ministro della giustizia in esilio . ma costruire una transizione politica che consenta al nostro popolo di tornare a casa. I tutsi ci accusano di genocidio, ma sono loro ad aver provocato la guerra civile per eliminarci dal Ruanda. In pace o con la forza torneremo. Oggi ci ammazzerebbero tutti, come in Burundi, ma se avessimo le armi e una base aerea…”. Comunque vada, le speranze dei profughi di rientrare nel Paese sono quasi inesistenti. Il sovrappopolamento e la scarsita’ di terre coltivabili . le prime, vere cause di queste guerre . comporta la spoliazione degli sconfitti. Dei profughi e degli sfollati hutu, poche migliaia sono ritornati ai villaggi d’ origine. Duecentocinquantamila vivono ammassati nella tendopoli di Butare, in territorio ruandese. Almeno centocinquantamila sono finiti in Burundi e ora tentano di fuggire in Tanzania dopo i massacri delle milizie tutsi. Trentamila sono chiusi nelle galere, sotto l’ accusa indiscriminata di genocidio. Nello Zaire, militari hutu ruandesi, sempre piu’ alleati ai “fratelli” sfollati negli ultimi mesi dal Burundi, per mantenere alta la tensione, stroncano i desideri di quanti vogliono mettersi sulla strada del ritorno con minacce e persino esecuzioni. Chi decide di rimpatriare deve richiedere la scorta dell’ Onu o della Croce Rossa. E i tutsi del Ruanda, per paura e interesse, non chiedono di meglio, tanto piu’ che quasi mezzo milione di tutsi in esilio, con soldi, attivita’ e migliaia di capi di bestiame, e’ rientrato nel Paese. Un altro colpo durissimo ai profughi e’ stata la decisione di cambiare, in meno di 24 ore, la moneta ruandese, bruciando cosi’ i risparmi portati via nella fuga e il piccolo tesoro dei militari espatriati. Anche a Mobutu, il presidente zairese, conviene ospitare i profughi: dopo aver appoggiato l’ anno scorso l’ operazione dei para’ francesi, puo’ ridarsi credibilita’ e ricevere aiuti internazionali. In questi angoli del terzo mondo, il conflitto e’ ormai piu’ conveniente della pace, perche’ fa affluire milioni di dollari di aiuti e centinaia di organizzazioni umanitarie. E il ciclo delle tragedie e degli spostamenti di popolazione diventa cosi’ ripetitivo.
Le pagine del Corriere della Sera del 1994: