Il dottor Carlucci mi aveva fissato un appuntamento per l’indomani, alle 11, nel suo ufficio. Non mi restava molto tempo per preparare la difesa. Un’ultima cena e un’ultima notte, come accade ai condannati. Quale difesa, poi…La sentenza era già stata pronunciata e non avevo scampo. Potevo soltanto discutere il modo di rendere la pena un po’ più sopportabile. Il modo si trova, mi aveva ripetuto il dottor Carlucci nel corso di alcune telefonate preliminari. Non dubitavo della sua sincerità. Non era il tipo di dirigente che prendesse alla leggera gli ordini ricevuti. Al contrario, dava l’impressione che li avrebbe applicati con umanita’ e addirittura sarebbe andato oltre le aspettative dell’azienda. Il suo obbiettivo era comunque eseguire la sentenza, cioè la mia eliminazione, pur avendo – su tempi e costi – margini di negoziato piuttosto larghi, come si lasciò sfuggire durante il colloquio.
Non era il solito ipocrita e mellifluo dirigente al quale era stato dato un enorme potere. Ma sembrava pregustare il momento in cui l’azienda avrebbe riconosciuto i suoi meriti, ossia l’essere riuscito a togliere di mezzo un po’ di gente in sovrannumero e a “tagliare”, come si dice in gergo aziendale, stipendi e personale. Lo imponeva il dio Bilancio. Un dio spietato e poco disponibile a perdonare trasgressioni, un dio che divora le vittime che i suoi sacerdoti gli offrono. Un dio che avrebbe prima o poi colpito anche dirigenti e “quadri”.
L’aspetto del dottor Carlucci, per quanto di scarsa importanza, almeno per me, era migliorabile. Ben pettinato, con l’aria di essere appena uscito dal barbiere. La cravatta a pois, coraggiosamente assortita con la giacca a quadrettini. Scarpe ricamate, all’inglese, ma giallastre. Dirigenti vestiti cosi sciamano ogni giorno fuori da banche, sedi di società e uffici pubblici all’ora della pausa. Vengono definiti “quadri” o dirigenti, a seconda del livello delle responsabilità di comando. Che ne abbiano poca o moltissima, sono sempre consapevoli del livello raggiunto e sono attentissimi al perimetro in cui possono muoversi per raggiungere il livello superiore. Alcuni, come Carlucci, sono brave persone, altri pessime, ma le regole dell’azienda azzerano quelle degli individui. Carattere e qualità contano fino a un certo punto. La fortuna ancora meno. Si avanza ottenendo i risultati che i diretti superiori si aspettano che vengano conseguiti. Al massimo ci si può mettere un po’ di adulazione.
L’azienda è l’unico ambito della società che assomiglia a una caserma, nel senso che la gerarchia prescinde da qualsiasi altra considerazione umana e gli obbiettivi vengono perseguiti a prescidendere dal contesto. In cima alla piramide, c’è appunto il top manager, il cui maggiore scopo è combinare il bene dell’azienda con i suoi dividendi e premi. Se il gioco non riesce, lui prende una liquidazione d’oro e va a fare danni altrove. I dipendenti si accomodano in mezzo a una strada.
Non era il mio caso. Anzi, ero un superprivilegiato rispetto a milioni di uomini e donne in cassa integrazione, licenziati, buttati fuori dalla produzione a cinquant’anni con il meccanismo della pensione anticipata. Tutto si dissolve in un attimo. Risparmi, progetti, avvenire dei figli, vecchiaia tranquilla. Anche questo non era il mio caso. Mi restavano progetti e mezzi sufficienti a una lunga e tranquilla terza età, definizione che uso per evitare una ripetizione nel testo, ma che vuol dire la stessa cosa : vecchiaia, over sessanta, anni azzurri come sta scritto sulle pubblicità delle case di riposo.
Anch’io non avevo deciso il momento dell’uscita. E in questo il mio caso era uguale a quello di tutti gli altri più sfortunati e meno pagati di me. Anch’io ero come un giornale vecchio, con le sue pagine stropicciate, piene di cose importanti che alcuni hanno già letto e tanti non hanno più voglia di leggere.
Qualcuno ha detto che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari. Io penso che l’economia sia una cosa troppo seria per lasciarla a industriali e finanzieri.
Il “quadro” Carlucci, con la sua cravatta sbagliata, stava rivoluzionando la mia vita.
Non è che l’idea di andare in pensione mi terrorizzasse. In fondo, mi dicevo, ho cominciato a lavorare molto presto. Per prendere la laurea, avevo studiato di notte. Per molti anni ho lavorato sodo, persino il sabato e la domenica. E da tempo sentivo la mancanza di fine settimana normali, banali, del genere partenza al venerdi pomeriggio e ritorno la domenica sera. Avrei apprezzato persino la coda in autostrada. Oppure una bella domenica di pioggia, con un buon libro e una partita di calcio, con pizza serale in famiglia. Non è che mi fossi negato queste cose per tutta la vita. Anzi. Ma erano sempre poco programmabili e spesso venivano annullate per improvvisi impegni, con immancabili reazioni in famiglia. Mia moglie e le mie figlie fingevano di capire, ma invidiavano gli altri, i normali. Un po’ più di tempo libero mi farà bene, raccontavo a me stesso, con l’illusione di comprendermi. Nei giorni successivi, per tutto il tempo che mi restava da vivere, avrei potuto andare al cinema anche il lunedi pomeriggio o il martedi, anche se, per qualche anno ancora, avrei dovuto spiegare alla cassiera che l’azienda mi aveva mandato in pensione, pur non avendo ancora sessant’anni e quindi il diritto alla riduzione del biglietto.
Il dottor Carlucci moltiplicava gli argomenti e le offerte economiche per rendere la cosa meno spiacevole. E io continuavo a convincere me stesso, fabbricandomi in un baleno un’infinità di progetti.
La conversazione suonava grottesca e ridicola. In teoria, avrei potuto respingere qualsiasi proposta. Ma soltanto in teoria, perché le cose in azienda erano già state decise. Era chiaro che un rifiuto avrebbe innescato pressioni umilianti e persino ritorsioni. D’altra parte, un’accettazione negoziata mi avrebbe invece consentito di vendere a caro prezzo la pelle. La sua sarà una pensione dorata, ripeteva Carlucci, con il tono del padre premuroso che spiega ai bambini quanto farà bene alla salute una schifosissima minestra. Tutto è relativo, ma, almeno per me, i soldi erano tanti e mi avrebbero fatto comodo.
Il problema era che potevano essere il doppio o il triplo, ma non avrebbero cambiato il mio stato d’animo. Non sopportavo l’idea di programmare la mia vita futura alle condizioni decise dal managment. E ancora meno sopportavo la decimazione delle persone, decisa con criteri peggiori di quelli utilizzati dai nazisti, per quanto fossi sicuro che le conseguenze sarebbero state infinitamente meno drammatiche. Noi, gli eliminati, non eravamo una razza, non avevamo un handicap, non diffondevamo idee sediziose, non eravamo fisicamente inutili e non più in grado di lavorare. Io poi potevo vantare una carriera rispettabile, un curriculum senza macchie e un numero di assenze dal lavoro vicino allo zero. In quasi quarant’anni! Eravamo uomini e donne la cui colpa era l’avere compiuto cinquantanove anni. Era il certificato di nascita a condannarci, associato all’inizio dell’attività lavorativa e quindi alle annualità di contributi versati. Una miscela di torti e condizioni che determinavano il pensionamento anticipato, una risata fragorosa sulle questioni di cui si discute in tutto il mondo : l’allungamento della vita, la necessità di lavorare più a lungo per risanare i conti pubblici, l’invecchiamento della popolazione che dovrebbe suggerire a chi fa le leggi di far lavorare più a lungo gli anziani.
Balle! Io ero fuori.
Il dottor Carlucci aveva preparato molto bene l’incontro. Sulla scrivania, c’era un mucchio di documenti che mi riguardava. Stipendi, premi, contributi versati, benefit, calcoli matematici. Per me erano incomprensibili. Carlucci invece li padroneggiava e mi buttava in faccia grafici e proiezioni che avrebbero sintetizzato il mio futuro tenore di vita. La cosa mi irritava. Per la mia incapacità di ribattere, mi sentivo come quei giocatori sfortunati e poco esperti che puntano ancora qualche fiches per disperazione, aggravando ancora di più la loro situazione, anziché trovare il coraggio di lasciare il tavolo. In effetti, avrei voluto alzarmi. Ma sapevo di non poterlo fare. Non sopportavo poi che Carlucci potesse liberamente frugare nella mia vita, come un confessore non autorizzato e come un giudice dei miei bisogni materiali, in base ai quali avrebbe lui deciso quanto concedere e come concederlo.
Grafici e proiezioni erano lame impietose che attraversavano la mia famiglia, i miei figli, i miei gusti, le mie vacanze, i miei sogni. Carlucci ci metteva del suo, un pizzico di sarcasmo che si risolvevano in un maldestro tentativo d’insinuare sensi di colpa in relazione alle mie pretese. Con tutta evidenza, aveva uno stipendio inferiore al mio e non resisteva a far pesare nella trattativa frasi del tipo : “Guardi che con queste cifre si può vivere benissimo….”
E’ vero, l’offerta era allettante. Ma a farmi firmare dopo pochi minuti la bozza d’accordo non fu l’entita della proposta economica ma la voglia di uscire prima possibile da quell’ufficio e di lasciare al più presto il palazzo. Avrei voluto gettare in aria il mucchio di carte e appunti, sfogare tutta la mia rabbia e indignazione per quella che avvertivo come una colossale ingiustizia o meglio ancora una gigantesca dimostrazione di stupidità. Certo, nessuno è insostituibile, ma ero sicuro di avere accumulato abbastanza considerazione da non meritare l’eliminazione anticipata dai ranghi. E almeno speravo che un giorno l’azienda mi avrebbe rimpianto. Mi sentivo come un amante tradito, come un marito abbandonato all’improvviso dopo molti anni di matrimonio. Mi scoprii a fare, a mente, strani calcoli. In quarant’anni, avevo dedicato all’azienda almeno quattordicimila giorni, più di ottantamila ore, cinque milioni di minuti o giù di li. Per altri cinque milioni avevo dormito o riposato. Per quanti minuti mi ero divertito, avevo amato, pensato, creato, realmente vissuto? Mi ripromettevo di recuperare il tempo perduto. L’azienda staccava la spina, ma io sarei rinato a nuova vita.
*****
Per fortuna, la data del mio ingresso nel mondo dei pensionati era il primo agosto. La gente andava in ferie e io andavo in pensione. Dal punto di vista climatico e come ritmo di vita non cambiava gran che. Decisi di anticipare la partenza e prolungare il soggiorno fuori città. Così l’inizio della mia pensione cominciava ad assomigliare a un lungo stage o a un ritorno al passato, al tempo del liceo e delle estati interminabili.