Kabul, giugno 1987

Nel 1984 lArmata Rossa conta 150 mila uomini e, come gli americani in Vietnam, pratica la politica della terra bruciata. Centinaia di migliaia di afgani lasciano il Paese. Quando i russi cominciano il ritiro, nel 1989, avevano perso sul campo 15 mila soldati. Sullaereo che mi portava dalla capitale sovietica a Kabul, i funzionari russi, di solito taciturni e riservati, volentieri spiegavano il tentativo di Gorbaciov. A Kabul, lambasciatore russo mi illustrò le tappe dellimminente ritiro dellArmata rossa. Allorizzonte, non cera però lindipendenza dell’Afghanistan. C’erano – come oggi – i signori della guerra, pronti a riprendersi territorio e traffici, e il regime dei talebani, che in pochi mesi avrebbe fatto dellAfghanistan lunico Paese al mondo in cui il fondamentalismo islamico sia arrivato al  potere.

Negli anni Ottanta, agli occhi dell’Occidente, i guerriglieri mujahiddin – senza distinguere fra patrioti e fondamentalisti islamici, fra briganti e mercanti di droga, – rappresentavano la Resistenza” allOrso sovietico, al potere imperiale di Mosca che aveva organizzato colpi di Stato, sostenuto regimi sanguinari e invaso il Paese nella logica dellaiuto fraterno.  Aprendo i discorsi ufficiali in nome di Allah e recitando il Corano, il nuovo leader imposto da Mosca, Mohammad Najibullah, a metà degli anni Ottanta, aveva pragmaticamente stravolto la «Rivoluzione» socialista avviata dal suo predecessore Babrak Karmal e difesa, dal Natale del ’79, da centocinquantamila soldati dell’Armata Rossa. Najib” sembrava aver capito che le «trasformazioni» sociali erano state imposte in nome di un’ortodossia marxista assolutamente estranea al Paese. La strategia del consenso era evidentemente concordata con il Cremlino. Mohammad Najibullah era lultima possibilità di pacificare lAfghanistan, piegare la resistenza armata, mantenere il Paese nella sfera dinfluenza sovietica. In cambio venivano fatte concessioni alle tradizioni e alla religione.

La resistenza nazionalista, i patrioti come il comandante Massoud (ucciso alla vigilia degli attentati dell11 settembre a New York) e i mujhaiddin che avevano ricevuto armi dagli Stati Uniti e resistito allArmata Rossa furono travolti dalle divisioni interne e dalle lotte tribali, alimentate dai traffici di droga e da interessi esterni al grande giocoper la dominazione dellAfghanistan.

Un gioco cominciato nel 1838, con la dominazione della Gran Bretagna, in concorrenza con la Russia degli Zar. Dopo l’impero britannico, toccava all’impero sovietico l’umiliazione della storia. E oggi tocca all’America.

Giustamente, lAfghanistan è stato chiamato il Paese della guerra eterna, come si vede in queste settimane dopo il ritiro delle forze della Nato. Intanto la produzione di eroina è tornata ai livelli degli anni Novanta, due terzi della produzione mondiale. L’intervento militare della Nato e leliminazione dei talebani furono considerati dalla Comunità internazionale la risposta legittima agli attentati di New York.

Massoud amava citare un vecchio proverbio persiano : Tutte le tenebre del mondo non possono tutte insieme spegnere la luce di una piccola candela.Al suo amico e fotoreporter Reza, Massoud spiegava così il quadro strategico : Le compagnie petrolifere americane vogliono controllare oleodotti e gasdotti che collegano il nuovo eldorado dellenergia, il Caspio. Non potendosi fidare dellIran, dopo lascesa degli ayatollah, hanno bisogno del controllo dellAfghanistan e del Pakistan. La CIA e lesercito pakistano hanno messo in pratica un grande programma di armamento e addestramento ideologico dei nostri poveri figli che popolano i campi profughi in Pakistan. Lindottrinamento nel segno dellIslam conquistatore è alla base del potere dei talebani. Non bisogna dimenticare che Bin Laden è stato un agente della CIA. Ricevette dalla CIA armi e addestramento. I fondi arrivavano da uno dei grandi alleati degli Stati Uniti, lArabia Saudita.Nel grande gioco, Massoud, che chiamavano il leone del Pandjshir non poteva che rimanere stritolato.

Ahamad Shah Massoud nasce nel 1953, quando comincia il capitolo più tormentato della storia del suo Paese. Il primo ministro Daoud detronizza il Re Zaher, proclama la repubblica e avvicina Kabul alla sfera sovietica. Il partito popolare afgano, dispirazione comunista,  organizza nel 1978 un colpo di Stato e fa uccidere Daoud.  La stabilità del Paese è in pericolo per le forti resistenze interne al nuovo regime. Nel dicembre 1979 arriva un primo contingente di 25 mila soldati sovietici. Eun gigantesco ponte aereo quello che viene organizzato la notte di Natale. Ma i doni che vengono scaricati dalla pancia degli Antonov” sono centinaia di soldati ben equipaggiati che circondano Kabul, mentre dal confine sono in marcia i blindati verso la capitale. Il presidente Amin viene deposto e sommariamente giustiziato. Da Mosca arriva Brabrak Karmal, il nuovo uomo forte di stretta osservanza sovietica. I russi se ne andranno dieci anni dopo, lasciandosi alle spalle il senso della sconfitta, il rimorso di una sporca e inutile guerra neocoloniale che avrebbe prodotto un milione di morti in un popolo di quattordici milioni e un numero imprecisato di profughi. Il Paese dissanguato, in rovina, era disseminato di mine che avrebbero decimato unintera generazione di donne e bambini. Nei campi profughi in Pakistan e Iran si addestravano i volontari della guerriglia, nella quale si sarebbe ben presto inserito il germe del fondamentalismo.

Il leone del Pandjshir verrà identificato come il grande condottiere liberatore del Paese, il capo militare che ha cacciato i sovietici. Per un breve periodo, Massoud riesce a prendere il controllo della capitale e a formare un governo che rappresenta diverse fazioni. Ma lalleanza va in pezzi per le rivalità fra i vari capi e di fatto apre le porte ai talebani. Nel novembre del 1994, i talebani marciano dal Pakistan verso Kandahar, la terza città del Paese. Con loro ci sono decine di migliaia di profughi afgani e volontari pakistani. Due anni dopo conquistano Kabul. Massoud torna alla clandestinità e alla resistenza armata, ma ormai controlla poco meno del 10 per cento del territorio.

Il 16 dicembre 1996 viene pubblicato un editto delle nuove regole della società afgana: proibite le musicassette, obbligatorio il velo per le donne e la barba per luomo, distrutti gli aquiloni, proibito possedere fotografie, proibite danze e canti ai matrimoni, proibita la magia. Ogni trasgressione veniva punita con il carcere, le bastonate, la morte.

Nel marzo del 2001, i talebani distruggono le gigantesche statue di Buddah, rinnovando la tradizione secondo la quale la guerra di conquista prevede la distruzione della memoria e della cultura. Anche Najib fu travolto. Il suo corpo e quello di suo fratello vennero appesi sulla piazza di Kabul e a molti, in Occidente, simboleggiò la fine di un ultimo servo dellimpero sovietico. Ha ucciso molta gente, era contro lIslam ed era comunista. Eovvio quello che gli è capitato, disse un leader talebano dellepoca, il mullah Mohammad Rabbani. Negli ultimi due anni viveva protetto nella sede delle Nazioni Unite. Nonostante tutto non aveva voluto lasciare il Paese.  Eppure Najib aveva tentato davvero un  processo di riconciliazione nellinterregno fra la partenza dei sovietici e lavanzata di Massoud. Era considerato anche lui un uomo degli stranieri”, parola che per ogni afgano, di qualsiasi tribù o tendenza politica, significa pericolo.

Eimpossibile scoprire lAfghanistan senza viverci per molti anni. Quello che conobbi io, è soltanto una piccola parentesi durante gli ultimi mesi delloccupazione sovietica: quella in cui Najib tentava di farla dimenticare.

La religione musulmana non era stata messa in discussione nemmeno dai predecessori, ma nei sogni della «Rivoluzione socialista» doveva lasciare il passo a più o meno credibili forme di progresso: l’emancipazione della donna, la laicità dello Stato, le organizzazioni giovanili e operaie di ispirazione marxista, insomma le «forme» di una società socialista.

Nell’«era Najib», il ministero degli affari religiosi era già  tornato ad essere una delle chiavi del potere a Kabul. E l’Afghanistan tornava ad essere uno Stato islamico, con la legge coranica che avrebbe presto regolato ogni aspetto della vita civile, tribunali compresi.

La propaganda sottolineava la costruzione di 230 nuove moschee e il restauro di oltre mille centri di culto, nonostante la guerra e le scarse risorse del Paese. Ai pellegrini che volevano recarsi alla Mecca veniva concesso un prestito a fondo perduto e 14 milioni di dollari vennero spesi per questi «viaggi organizzati». La marcia indietro era arrivata al punto da far riapparire a capo coperto, nelle cerimonie pubbliche, le donne che erano state inserite a vari livelli dell’apparato.

Il paradosso, il gioco degli opposti, il rovesciamento di posizioni erano evidenti. Un governo debole, e sostenuto da Mosca, doveva minare alla base i principi della Rivoluzione per riconquistare il consenso della gente. Ma la «Rivoluzione negata» spingeva l’Afghanistan proprio nella direzione opposta a quella in cui volevano condurlo gli «innovatori».

AllHoliday Inn, dove i giornalisti venivano alloggiati e dove il menù dispirazione italiana non era stato cambiato dal nessun regime (spaghetti e pizza), il nuovo leader esaltava nelle conferenze stampa le «cifre della pace»: sessantamila profughi rientrati, seimila oppositori usciti di prigione, venticinquemila controrivoluzionari passati dalla parte del governo, l’autonomia restituita a oltre un migliaio di villaggi.

La resistenza ovviamente contestava queste cifre. Secondo un’opposizione ancora imbavagliata, centinaia di detenuti politici erano ancora nelle famigerate carceri di Kabul che, inutilmente, avevo chiesto di visitare. La gente non credeva a Najib. L’Unione Sovietica, proprio nel momento in cui proclamava di voler ritirare al più presto le truppe di occupazione, era costretta a restare almeno fino a quando il governo di Najib non avesse guadagnato un po’ più di consenso e a sostenere l’esercito regolare contro una guerriglia che, proprio in questa fase così delicata, aveva ricevuto il massimo dell’aiuto economico e militare dagli Stati Uniti.

A Kabul, il campus universitario era presidiato dai soldati con il mitra come tante zone importanti della capitale. Ma all’interno, fra i giardini e i viali alberati, si respirava un po’ di quella pace sognata dalla grande maggioranza degli afgani. Gli studenti passeggiavano con i libri sottobraccio e discutevano in circolo, sull’erba. Le ragazze aprivano gli ombrellini per ripararsi dal sole. Gonne a fiori, jeans e magliette americane. Nessuna portava lo tchador o il burka così diffusi fuori del campus, ma nessuna camminava con un ragazzo a fianco. 

L’Afghanistan di allora era il ritratto di questi giovani: una modernizzazione lentissima, l’attaccamento alle radici e alla tradizione, la paura negli occhi, la poca fiducia in un futuro «gestito» dal governo di Najib. Meno del dieci per cento della popolazione era iscritto al partito unico. Quasi nessuno era caduto nell’equivoco di scambiare una società collettivistica con il futuro. Equivoco alimentato dall’impulso dato all’istruzione e all’alfabetizzazione, dai soggiorni sovietici per i più meritevoli, dai professori cubani e tedeschi orientali, dagli «incoraggiamenti» all’abito occidentale, dall’inquadramento per associazioni sportive, culturali, paramilitari dove i figli di pastori analfabeti venivano travestiti da improbabili boy scouts comunisti. Quel periodo alimentò lillusione di un futuro migliore, come vent’anni dopo il fragile tentativo di Karzai con l’appoggio dell’Occidente. La storia si ripete.  Incontrai studenti  che amavano le canzoni italiane, con Al Bano e Raffaella Carrà in testa nella hit parade delle musicassette in vendita al bazaar. Anche se non le ascoltavano insieme. Discoteche e locali pubblici non erano mai esistiti e nessuno era nello stato d’animo di organizzare festicciole in casa. «E’ troppo pericoloso uscire la sera. Comunque la famiglia non lo permetterebbe nemmeno in tempo di pace».

Soltanto quando era possibile parlare appartati ci si rendeva conto di che cosa avesse significato vivere a Kabul sotto i governi  dei predecessori di Najib: Amin, il Pol Pot afganoe Karmal. L’oppressione della polizia segreta, gli arresti di decine di studenti, le perquisizioni di notte nelle case, le torture e le esecuzioni senza processo, la caccia casa per casa ai mujahidin. Una ragazza ricordava quando i soldati bloccarono un autobus e fucilarono sul posto i passeggeri maschi. Un’altra le violenze subite dalle donne e i furti durante le perquisizioni.

Uno studente, con le mani tremanti, sembrava interpretare il pensiero della maggioranza: «Molti miei amici sono stati uccisi in battaglia o sono a combattere con i mujahidin. Purtroppo i mujahidin sono divisi e non sanno come andare avanti in questa guerra. Ma il nostro cuore è con loro. Sono i veri patrioti, perché vogliono che i russi se ne vadano. E’ vero, il clima è un po’ cambiato. Crediamo che la pace e la riconciliazione nazionale siano l’unica soluzione possibile, ma Najib non può farcela da solo».

Asadullah Habib, da cinque anni rettore dell’università e presidente dell’unione degli scrittori, era una voce ufficiale, ma utile per capire come stavano andando le cose. «L’università è gratuita per tutti da prima della rivoluzione. Gli studenti più poveri ricevono anche un piccolo salario e i vestiti. Ma la guerra ha tagliato i fondi e ha aperto ferite profonde. Molti giovani hanno abbandonato gli studi per il servizio militare. Altri hanno dovuto sostenere la famiglia o sono andati a combattere con i ribelli. Sotto il governo di Karmal cinque professori sono stati arrestati, ma tre sono stati recentemente liberati e hanno ripreso il loro incarico. Abbiamo chiesto che anche gli altri due vengano rilasciati. Non ci risulta che ci siano ancora studenti in prigione». «Per 7.600 iscritti, soltanto 680 professori: troppo pochi e, senza la pace, non possiamo stabilire rapporti stabili con tutti i Paesi, compresi quelli occidentali. Noi manderemmo volentieri i nostri ragazzi a specializzarsi anche negli Stati Uniti: non ci sono preclusioni. Abbiamo fatto tanti errori ammette il dottor Habib ma non è mai stata tentata un’egemonia culturale. Dai russi abbiamo ricevuto aiuti e tecnologia perché i Paesi occidentali ci hanno abbandonato, ma non abbiamo mai ricambiato con corsi di marxismo».

A Mazar-i-Sharif, partecipai con un gruppo di giornalisti a un incontro organizzato dal governo per dimostrare che la guerriglia finanziata dall’imperialismo americano era stata sconfitta. Ma i mujahidin appostati sulle montagne volevano dimostrare il contrario, per la causa e per Allah, lanciando missili sugli aerei militari russi.

Arrivai a Mazar-i-Sharif, quattrocento chilometri a nord di Kabul, ultimo avamposto militare al confine con l’Unione Sovietica. Nella sala d’attesa, fra le mosche che si azzuffavano sulle lattine di aranciata vuote, il grande ritratto di Gorbaciov appariva sui manifesti accanto a leader locali che agitavano il Corano. La propaganda e il cattivo gusto riuscivano a raggiungere vette insospettabili. Il barbone di Marx vicino ai turbanti, muscolosi operai da realismo socialista, praticamente inesistenti da queste parti, immortalati nei poster con fondali di moschee, bandiere rosse e bandiere verdi che sventolavano inutilmente sulla distruzione di un popolo.

Tre «Antonov 26», bimotori ad elica, si alzarono con un movimento a spirale fino a raggiungere i seimila metri di sicurezza, fuori dalla portata degli Stinger, i lanciarazzi che gli americani regalavano alla guerriglia. Interminabili minuti in cui, dal finestrino, rivedevo la scena vista tante volte dal balcone dall’albergo Intercontinental. Dalla pancia dell’Antonov russo uscivano decine di razzi luminosi che avrebbero dovuto fare da scudo ai missili made in Usa.

Scena che si ripeteva ogni volta che l’aereo sorvolava villaggi sperduti, fiumi in secca e catene di montagne mozzafiato, le nevi eterne del Solan. Dall’alto, si intravedevano centinaia di crateri aperti dalle bombe. E, più lontano, le gole dove i mujahidin avevano intrappolato gli inglesi al tempo delle colonie e le strade tutte curve dei romanzi di Kipling che sembravano voler raggiungere la cima del mondo.

Nessuno potrà mai controllare queste valli immense senza consenso. I russi cominciavano a capirlo.

I mujahidin portavano i nuovi missili Stinger dal Pakistan fino alla periferia di Kabul. La capitale era praticamente circondata. Il pilota sorrideva: «Sono musulmano, non comunista. Se arriva il colpo non te ne accorgi nemmeno e sei nel regno di Allah». Noi laici cercavamo sicurezza nell’ironia di un collega di Hanoi, due fratelli vietcong morti, al quale queste esperienze non davano più alcun brivido. «In guerra hai sempre quattro possibilità: di non essere visto, di non essere colpito, di venire soltanto ferito e di… ». 

Mazar-i-Sharif era una città di cinquecentomila abitanti. Pastori, donne, bambini e vecchi. Case basse dello stesso colore del deserto, circondate da muretti «per proteggere le donne e gli animali», e, in mezzo la più bella moschea dell’Afghanistan con le volte di smalto azzurro. «I mujahidin volevano farla saltare. Ma abbiamo scoperto in tempo le bombe collocate all’interno. Altre moschee sono state attaccate. Ora stiamo restaurando moschee e ricostruendo le scuole», mi diceva il funzionario del regime, il quale sembrava aver appreso bene la lezione da impartire ai giornalisti. Attorno alla città, vecchi fortilizi coloniali che traboccavano di soldati e villaggi per lo più abbandonati. Per il caldo opprimente le brande stavano fuori allaria aperta. Spuntavano dai balconi, dai cortili, dalle torrette di guardia. Le difese e lo spopolamento lasciavano capire che la guerriglia era arrivata anche in questo paesaggio da «deserto dei tartari», dove le autoblindo arrancavano nella polvere e i soldati russi scrutavano le cime delle montagne aspettando lassalto.

Girando nel bazar, si capiva che i progetti dei sovietici e dei loro regimi fratelli si spegnevano già fuori Kabul, indipendentemente dall’effetto della “guerra santa» dei mujahidin. Qui l’Afghanistan più chiuso e tradizionale non era stato nemmeno scalfito dalle velleità moderniste e dallideologia socialista. Non una sola donna girava a capo scoperto e il burka nascondeva il viso della razza più bella del Paese, l’uzbeca e la turco-mongola. I bambini e gli uomini sorridevano timidi e gentili, come per ingraziarsi uno straniero che non avevano mai visto e che poteva essere sempre pericoloso.

Visitai le rovine dell’antica città di Balkh che la leggenda vuole «madre di tutte le città del mondo» e simbolo di stragi che si ripetono nei secoli senza insegnare nulla a nessuno. Rasa al suolo da Genghis Khan che sterminò la popolazione, era poco più di un villaggio amministrato da ex mujahiddin passati dalla parte del governo. Abdul Qader, con una sessantina di uomini armati, era il sindaco, il padre padrone, il boss. Tutto come prima, solo che sparava dalla parte opposta. In pratica, i dirigenti di Kabul avevano riscoperto i metodi della monarchia: massima autonomia, potere, stipendio e persino armi al capi tribù locali per garantirsi la sicurezza dei territori meno controllabili. E oppio per tutti.

A Qui Mohammad, un villaggio di seicento famiglie, provavo a fare queste domande ai mujahidin pentiti. Gli occhi smarriti, gli abiti eleganti rispetto al resto della gente, un tocco di ridicolo come il cinturone delle pallottole portato sopra il panciotto di vigogna, alla maniera dei capi indiani che passavano dalla parte degli yankee. Annotai la traduzione, per quel che valeva: «Abbiamo vissuto per cinque anni sulle montagne, lasciando qui le nostre donne e i nostri figli. Abbiamo assaltato e bruciato villaggi e abbiamo anche sparato. Insomma, ubbidivamo agli ordini dei nostri capi. Ma ora è in vigore l’amnistia. Nel nostro gruppo c’erano degli istruttori francesi che ci insegnavano ad usare i lanciamissili. No, non sappiamo il francese. Erano i francesi che parlavano la nostra lingua… Non ha più senso combattere, perché i soldati sovietici presto se ne andranno e qui tornerà la pace. C’è bisogno di lavoro, di pensare al raccolto e al bestiame».

Un vecchio che dicevano avesse superato i centodieci anni, con la barba bianca arrotolata sotto il mento e il «lunghi», la striscia di tela attorno alla testa, non aveva mai lasciato il villaggio. Era rimasto, con le donne e i bambini, in un piccolo mondo sconvolto ma immutabile di secoli che, come lui, sembrava voler resistere ancora una volta a tutto: alle invasioni, alle guerre, alle ideologie, alle follie rivoluzionarie, alle «contaminazioni» delloccidente. Si avvicinò senza parlare, mi salutò chinando il capo e portandosi la mano al cuore, ripetendo i gesti eterni dell’ospitalità e della pace.

Un giovane contadino arrancava sulle stampelle. Era saltato, come tanti, su una mina. Con orgoglio, alzò la tunica e mi fece vedere il moncone di una gamba tagliata sotto il ginocchio. A gesti fece capire che anche lui aveva combattuto sulle montagne di Mazar-i-Sharlf. Lui non serviva più alla guerra santa né alla rivoluzione kabulista.

Un intellettuale dissidente mi ricevette con la preghiera di non pubblicare il nome. La sua testimonianza, riletta oggi, è illuminante degli sviluppi successivi. «La presenza sovietica è stata soltanto militare. I nostri dirigenti hanno preteso di cambiare tutto, credendo che il popolo afghano potesse capire il socialismo. Siamo in un Paese profondamente religioso e molto complesso. Ogni decisione è delicata e va studiata a fondo, con prudenza. Nessuno è mai riuscito a colonizzare gli afghani, perché le aggressioni esterne ci hanno sempre unito. Se si spezza il pane con un afghano si diventa amici per sempre, ma non sopportiamo i torti. Siamo gentili, ma orgogliosi. Terribili, a volte. Il popolo è contrario ad ogni forma di estremismo e di ideologia collettiva. Anche i mujahidin più radicali sono comunque destinati a fallire. Nella nostra gente contano soltanto i clan e le famiglie, lo spirito individualista, indipendente. Forse è il momento buono per la riconciliazione, perché tutti, da una parte e dall’altra, sono stanchi di combattere. Le famiglie sono divise da troppo tempo. Anche molti profughi, che in Pakistan hanno trovato un lavoro o si sono inseriti nel nuovo Paese, vogliono tornare. Siamo un popolo di nomadi e di pastori, ma attaccati alla nostra terra e alla nostra casa. I russi aiutano l’esercito regolare, intervengono, bombardano, tuttavia questa resta una guerra fratricida, fra tribù e famiglie che spesso hanno un figlio nel partito e un figlio con i mujahiddin. E’ il momento di dire basta. Purtroppo, la storia dimostra che in Afghanistan è facile entrare da ogni parte ed è difficile uscirne».

Un vecchio saggio mi regalò un’altra facciata incredibile di un Paese, in cui feudalesimo e analfabetismo cominciavano a convivere con la cultura e l’industria. Il problema è che in mezzo, ancora oggi, non c’è nulla, soltanto guerra. Abdurrahim Majid, nonostante la malattia che lo aveva costretto a lunghi soggiorni in cliniche americane, era il proprietario della fabbrica afghana della Coca Cola. Fabbrica privata che aveva resistito alla rivoluzione socialista come il fisico del suo padrone. Duecento operai, in gran parte esentati dal servizio militare, e una ventina di donne impegnate, come gli uomini, alla catena dell’imbottigliamento. Dodicimila bottiglie all’ora che finivano al bazaar e persino sulle tavole delle riunioni ufficiali.

«Har Cheez ba Coke behtar meshawad», tutto va meglio con Coca Cola, era lo slogan scritto sui camion e lanciato dalla televisione. Come in tutto il mondo, resisteva alle ideologie e all’lslam, solo che qui la pubblicità alla bevanda imperialista suonava come un augurio grottesco. Majid, ex ministro durante la monarchia, mai iscritto al partito di governo, era diventato membro del consiglio rivoluzionario su invito del leader Najib. Un governo debole aveva bisogno di uomini intelligenti e di dimostrare che il sostegno all’iniziativa e alla proprietà private non era uno slogan. «Non sono comunista, do buoni consigli per rimediare agli errori del passato, fatti da gente arrivata al potere senza esperienza, senza conoscere il proprio popolo. Il Corano dice: “Se qualcuno viene sulla tua terra è tuo dovere combattere per mandarlo via”. Allora potremo diventare una vera democrazia, dopo questi anni tremendi. Adesso speriamo in Najib. E’ un patriota che vuole bene alla sua gente. Ma deve dire ai russi di andarsene».

I russi partirono. LAfghanistan del dopo talebani aspetta ancora la pace.