Si sa, la percezione del rischio è inversamente proporzionale alla distanza dal rischio stesso. Un bambino che muore sotto casa suscita più emozione degli appelli dell’Unicef per la mortalità infantile nel mondo. Ci siamo preoccupati del coronavirus quanto più dalla Cina si avvicinava all’Europa ed entrava nel salotto di casa. Logico che ancora non ci si preoccupi e nemmeno si rifletta sull’eventualità che l’epidemia raggiunga l’Africa. Eppure le conseguenze, come è facile immaginare, potrebbero essere catastrofiche, non solo per l’Africa stessa. Attualmente, i contagiati (in una quarantina di Stati) sono poche centinaia con punta massima in Egitto (327 contagiati) e la stima è dello 0,11 per cento della popolazione mondiale. Si potrebbe concludere che il destino (o il buon Dio) stia risparmiando un Continente già afflitto da tremende epidemie, carestie e conflitti. Basti menzionare i 400 mila morti all’anno per malaria, i milioni di sieropositivi da HIV, la recente invasione di locuste che ha devastato intere regioni dell’Africa orientale.

Oppure si potrebbero azzardare ipotesi, peraltro non suffragate da riscontri scientifici. La prima è che le temperature africane siano più alte e non favoriscano la diffusione del virus. La seconda è che la popolazione africana è molto giovane, mentre si sa che il virus è più aggressivo e mortale per la popolazione anziana. In apparenza, il Cov19 non conosce confini, fasce di età, classi sociali e gruppi etnici, ma è un fatto che – per ragioni tutte da approfondire scientificamente – abbia colpito con maggiore virulenza aree fortemente urbanizzate, territori pesantemente inquinati come la Lombardia  e – per quanto riguarda l’Italia – la popolazione più anziana e autoctona. La terza ipotesi è che la popolazione africana, in particolare l’Africa sub sahariana, abbia sviluppato maggiori anticorpi.

Al di là di riscontri scientifici, queste sarebbero ipotesi confortanti per l’Africa, anche perché, in caso contrario, la solidarietà internazionale sarebbe comunque condizionata (e probabilmente ridotta) dalla mole gigantesca di risorse destinate alla ripresa dei Paesi più sviluppati: ricchi si, ma messi in ginocchio dall’epidemia.

Ci sono purtroppo ipotesi più allarmanti. La prima è che il virus possa diffondersi nel medio periodo e che oggi sia soltanto rallentato dalla riduzione dei viaggi e dalla chiusura delle frontiere. La presenza e il pendolarismo di funzionari e lavoratori cinesi – la nuova colonizzazione del Continente – sono oggi fortemente ridotti. La seconda è che il virus sia già in circolazione ma non sia “contabilizzato”, sia perché molti africani potrebbero essere asintomatici, sia perché le infrastrutture sanitarie di quasi tutti i Paesi africani non consentirebbero efficaci controlli.

E’ un dato di fatto che il 70 per cento del miliardo e duecento milioni di africani vivono in giganteschi agglomerati urbani con densità e condizioni di vita che escluderebbero forme di contenimento in caso di esplosione dell’epidemia. Le condizioni sanitarie, il numero di posti letto, di unità specialistiche e di medici, variano da Paese a Paese, ma non raggiungono in nessun caso standard europei. Basta riflettere sulle attuali pesanti difficoltà dell’Italia, un Paese che conta un numero di medici ogni diecimila abitanti venti volte superiore alla Nigeria. Nella gerarchie dei Paesi più vulnerabili, gli ultimi 22 posti nel mondo spettano a Paesi africani.

Non possiamo sapere oggi quale delle ipotesi sia più realistica. Di sicuro, le conseguenze economiche dell’epidemia nei Paesi più sviluppati si sono già fatte sentire sul Continente africano. Crollo del prezzo del petrolio, calo degli investimenti cinesi e contrazione dell’interscambio hanno già fatto dimezzare per l’anno in corso le stime di crescita. Per l’Africa – scrive il Sole24ore – il Fondo Monetario ha stanziato un pacchetto di aiuti da 50 miliardi di dollari. Briciole, se si considerano i “bazooka” di centinaia di miliardi di euro che stanno per piovere sui Paesi europei.