Poliziotti in assetto antisommossa. La capitale bloccata. Luci natalizie mestamente accese su avenue deserte e vetrine protette e sbarrate, grandi magazzini semivuoti. E’ lo scenario pre insurrezionale che si prospetta stamane a Parigi per il quarto sabato di protesta dei gilets jaunes. A nulla sembrano servite le concessioni del governo, l’annullamento delle misure fiscali sui carburanti, i tentativi di dialogo con improbabili portavoce moderati di una moltitudine popolare che non ha rappresentanti, e che rifiuta il dialogo per alzare la posta. Gli aumenti della benzina sono stati la scintilla per rompere fragili argini di rabbia e malcontento e avanzare richieste che sono lo specchio identitario della folla che le esprime: aumenti salariali, dimissioni del presidente, migliori servizi pubblici, taglio delle tasse, rappresentanza diretta, abolizione dell’Assemblea. Tutto e più di tutto, anche l’impossibile e subito. Un movimento senza testa, infiltrato da frange violente, alimentato dalla rete, intossicato di false notizie,che in rete legittima obiettivi, addita nemici. Il video dei cento liceali in ginocchio circondati dai poliziotti diventa virale e sparge virus velenosi.
Puó essere che lo schieramento di polizia ai massimi livelli riesca a limitare le violenze. Ma nessun dispositivo di sicurezza potrà attenuare la sensazione di un potere centrale isolato dal Paese e politicamente nell’angolo. Chi si chiede come questo sia possibile in uno Stato che si ritiene forte, coeso, centralizzato, dimentica il Sessantotto, le manifestazioni contro Chirac, la rivolta delle periferie, i grandi scioperi contro Sarkozy e Hollande, la profonda inclinazione dei francesi a procedere per salti violenti più che per lenti processi riformatori. Con i gilets jaunes presentano il conto una Francia marginale e dimenticata, la piccola borghesia sconfitta dalla globalizzazione, le campagne abbandonate. E’ uno schieramento confuso che sfoga odio sociale, frustrazione, rabbia contro privilegi veri o presunti, che ritiene Macron il « presidente dei ricchi » in un Paese con il record mondiale di prelievi fiscali, in cui peró il 10 per cento dei francesi più abbienti sostiene il 70 per cento del gettito.
Qualcuno paragona Emmanuel Macron a Luigi XVI e il popolo dei gilets jaunes al Quarto Stato in marcia sulla Bastiglia. Si tratta di suggestioni storiche in cui si dilettano opinionisti, ai quali Macron ha offerto numerose pezze d’appoggio. Il giovane presidente ha sottovalutato le problematiche sociali della protesta e il consenso che riceve anche da chi non scende in piazza. Con la precipitosa soppressione delle misure fiscali, ha delegittimato il suo governo che aveva appena annunciato una moratoria di sei mesi e ha innescato speculazioni politiche sui prossimi sviluppi : sostituzione del primo ministro Èduard Philippe, scioglimento dell’Assemblea, rimpasto di governo. Inoltre il presidente ha confermato nell’immaginario dei francesi il vizio d’origine: enfant prodige uscito dalle grandi scuole d’amministrazione, ex banchiere, poco incline al contatto con la gente, intellettualmente supponente, in fin dei conti arrivato all’Eliseo con una forza politica del tutto nuova, minoritaria nel Paese, molto giovane e poco esperta. Il presidente dei grandi e appassionati disegni sul futuro dell’Europa e sulle sfide internazionali della Francia, ha mostrato i limiti di un tecnocrate che fa calare dall’alto riforme non condivise nè efficacemente comunicate, chiuso in una cabina di regia cui hanno accesso pochi fedelissimi. Il silenzio di questi giorni, mentre Parigi bruciava, ha finito per confermare l’immagine di un uomo stupito dal fatto che l’opinione pubblica non abbia compreso la sua idea di modernizzazione della Francia. Il paradosso è di avere aumentato proprio in questi mesi il potere d’acquisto dei francesi.
Macron è ora in bilico. Potrebbe scegliere l’immobilismo consensuale di un grande maestro in materia come Jacques Chirac, e spegnere la rivolta con il piú efficace degli antidoti, il gonfiamento del debito pubblico (già vicino al 100% del Pil). Oppure trovare il coraggio di riprendere la marcia. Non sarà facile, con le sue truppe disorientate e le elezioni europee alle porte.
Questo articolo è uscito sul Corriere della Sera l’8 dicembre 2018