Chi ha detto che la Francia non fa le riforme, è un Paese conservatore e geloso custode dell’identità e della cultura nazionale? In questi giorni, entra in vigore la riforma delle riforme. Quasi una rivoluzione, perché la ghigliottina si abbatte sugli accenti circonflessi, su alcune parole, insomma sul perenne mal di testa degli scolari e degli stranieri. Il lifting (pardon, il maquillage) sarebbe dettato da esigenze di semplificazione nell’era del pc e della comunicazione globale, oltre al fatto di rendere più attraente una lingua che é stata patrimonio della cultura, della letteratura e della diplomazia europea e che oggi é minoritaria nel mondo, nonostante il contesto delle ex colonie e dei Paesi africani francofoni.

Ma attenzione, la riforma si spinge fino a un certo punto, o meglio dire, fino a un certo accento. È cioé limitata ad alcune parole, per le quali l’accento sarebbe appunto superfluo. La conservazione resiste, non solo per accontentare i puristi e tutti coloro che sperano che, dopo la Bastiglia, ci sia la Restaurazione.Della riforma si discute in realtà da anni. Come per quasi tutte le riforme che metà della Francia sogna e l’altra metà blocca o rinvia o diluisce nella gattopardesca abitudine di non cambiare quasi nulla. Succede per il mercato del lavoro, per le 35 ore, per l’impiego pubblico, per le pensioni, per le questioni che dividono non solo la politica, il che é normale e salutare in democrazia, ma la società francese nel suo insieme, le categorie, ognuna con il proprio potere di blocco e di rappresentanza corporativa. L’ultimo esempio, la rivolta selvaggia dei tassisti contro uber.

La speranza di cambiamento resta forte, forse maggioritaria, ma non é ancora maggioranza politica omogenea e quindi in grado di decidere. Conservazione e rivoluzione sono nel dna del Paese, il riformismo é a volte un oggetto misterioso. Come l’accento che molti non sanno dove mettere.