C’è qualche cosa di epico e di etico nel dramma di Rino Gattuso. La grave malattia autoimmune che lo ha colpito, lo costringe ad andare in campo con una benda all’occhio. I farmaci cortisonici non alleviano il dolore. I disturbi della vista, di cui soffre da anni, lo obbligano a posture che dopo poche ore provocano dolori e imporrebbero riposo. La squadra ne risente, sono arrivate anche le sconfitte e le delusioni. Ma lui, Rino Gattuso, cuore rossonero prestato ai napoletani, è sempre “sul pezzo” come ama dire, in campo con la benda, come un pirata a guidare l’assalto della sua ciurma oggi un po’ male assortita, fra squalifiche e infortuni. “C’è di peggio”, ha detto, forse per esorcizzare il suo dramma, ma io credo piuttosto per lasciare un messaggio consolatorio : fra malattie e guerre, pandemie e miserie, c’è appunto di peggio in questo mondo. E di fronte a questo peggio, bisogna mostrare coraggio, determinazione, riserbo di fronte ai propri guai. Lui, se non fosse per la vistosa banda all’occhio, forse non ne avrebbe nemmeno parlato. « À da passà a’ nuttata », si dice a Napoli.
Ma Gattuso è fatto così. Ha sempre fatto del bene a tutti. E’ diventato un grande del calcio, pur essendo nato (copyright Gattuso stesso) con “i piedi quadrati”, grazie al sacrificio, al lavoro, alla voglia di apprendere, che è tipico delle persone umili e intelligenti, che mai si monteranno la testa anche quando arrivano il successo, i soldi, i riconoscimenti. Il giorno dopo, si torna al lavoro, si guarda al futuro, senza perdere di vista i più deboli, quelli che sono rimasti indietro e non ce l’hanno fatta. La sofferenza è il suo marchio di fabbrica, è nel DNA del campione – campione vero, nel calcio e nella vita – da quando si è scrollato di dosso la miseria della provincia calabrese per arrivare al Milan, passando per la Scozia, e poi sempre più in alto, fino alla nazionale dei campioni del mondo. Ha sempre lottato, anche da allenatore, perchè fossero riconosciute le qualità dietro l’aspetto e i modi un po’ rozzi, semplici, da sergente maggiore, mentre il circo mediatico resta abbagliato dai santoni del calcio, veri o presunti, maestri per definizione anche quando non vincono più o non vincono niente. Lo ha capito soltanto De Laurentiis, dando il benservito ad Ancelotti, che, dopo indimenticabili trionfi rossoneri e madrilisti, a Napoli, si era forse dedicato con maggiore passione alla pizza margherita.
Credo che Gattuso abbia sofferto anche quando il Milan non ha avuto fiducia in lui, considerandolo un ripiego, un uomo di transizione, preferendogli (!!!) il presunto maestro Giampaolo, uno che invece di frequentare Coverciano dovrebbe andare a Lourdes. Si sa come è finita. Al Milan, anzichè richiamare Gattuso in fretta, hanno preferito un altro ripiego, il modesto Pioli che stava per subire la stessa sorte di uomo di transizione. Ma questa volta, per fortuna (o grazie al Covid che ha sconvolto incassi e piani) si sono accorti in tempo delle sue qualità sottovalutate.
Viene in mente l’ultima uscita pubblica di Gattuso in cui ha teorizzato che « vai a cagare! » è un modo di dire, non un insulto. Punti di vista del Galateo, ma qualche volta ci azzecca e ci vuole per mettere a posto gli arroganti e i presuntuosi.
Da milanista con un po’ di Napoli nel cuore (ci ho vissuto e lavorato cinque anni) vorrei aggiungere un quesito esoterico, scaramatico : non è che da quando si è deciso di andare in campo con la maglia dell’Argentina è arrivata un po’ di sfiga? Va bene l’omaggio a Maradona, va bene intitolare al Dio del Calcio lo stadio, vie, piazze, stazioni del metrò, pizzerie e centri sportivi, ma che cosa c’entra la maglia a strisce bianco celesti? Quella di Maradona, nel cuore dei napoletani, era azzurra. Ed era azzurra anche quella della squadra che mandò a casa gli argentini al Mundial. La indossava un certo Gentile, che marcava stretto Maradona : un mastino attaccato alle caviglie,