La Bild Zeitung cominció a pubblicare offerte di lavoro, alloggio e ospitalità gratuita. I fratelli dell’Est diventavano così cittadini di una sola Germania, a tutti gli effetti, compresi sussidi e pensioni, calcolati in marchi dell’Ovest. Gli annunci della Bild erano la più significativa avvisaglia del comune sentire e di un percorso popolare che non si sarebbe fermato fino alla caduta del Muro e alla riunificazione del Paese. Nell’estate dell’Ottantanove, decine di migliaia di tedeschi orientali erano ammassati alla frontiera fra l’Austria e l’Ungheria. A centinaia si erano rifiugati nei giardini dell’ambasciata tedesca a Praga. Un fiume umano scorreva verso la libertà fino a Passau, la Venezia della Baviera, dove si congiungono il Danubio, l’Inn e l’Ilz e dove, idealmente, si riannodavano i fili della Mitteleuropa spezzati dal comunismo.

Nelle tendopoli di profughi, erano stati improvvisati, con straordinario tempismo e organizzazione teutonica, una sorta di uffici di collocamento: impiegati e assistenti sociali cercavano ingegneri, tecnici, operai specializzati, infermieri; selezionavano sul posto curriculum e aspirazioni, bisogni individuali e situazioni familiari. I contratti e le proposte di lavoro viaggiavano su telex e fax, montati accanto alle cucine da campo. Non c’erano problemi di lingua, cultura, origini, visti: i tedeschi dell’Est, in quell’estate di slanci ideali e solidali, erano uguali ai tedeschi dell’Ovest ;  soltanto più tristi e spaventati, si riconoscevano dalle scarpe e dalle borse da viaggio, dagli occhi gonfi di stanchezza, dai sacchetti di plastica e dalle Trabant, le ridicole vetturette a miscela inquinante, cui la generosa Germania di Bonn avrebbe anche fornito targa e immatricolazione provvisorie.

Di fatto, la Germania comunista, ancora prima di cadere come regime dittatoriale e improbabile barriera anticapitalista, si stava svuotando. Il Paese perdeva le migliori energie, i giovani, la generazione nata dopo la costruzione del Muro, cresciuta sotto la cappa del regime, senza la memoria della guerra e del Nazismo, quindi sempre più refrattaria al messaggio della propaganda del “bastione antifascista” e al contempo sempre più sedotta dal modello Occidentale che, via etere, entrava in tutte le case dell’Est. Qualche loro nonno e qualche loro genitore si era gettato dalle finestre della Friedrichstrasse per scappare dall’altra parte. Loro, fra le tende e le cupole barocche di Passau, guardavano le Mercedes come una possibilità. Molti genitori si erano rassegnati a una vita anonima e sorvegliata. Loro, i giovani, pretendevano il futuro.

La RDT si stava svuotando anche per la straordinaria concomitanza di diversi processi politici ed economici. I cambiamenti introdotti da Gorbaciov nell’Urss avevano trascinato, a cascata, significativi rivolgimenti in tutta l’Europa dell’Est. Fisicamente e simbolicamente, era stata recisa la “Cortina di ferro” al confine dell’Ungheria. Il primo Muro era già caduto. La frontiera fra Austria e Ungheria diventava un colabrodo. Persino la Germania comunista che fra i Paesi socialisti era la più refrattaria alle riforme, aveva dovuto cedere a qualche apertura. Talmente timida, da non essere percepita da un’opinione pubblica internazionale ovviamente più attenta agli avvenimenti di Mosca, Varsavia, Praga e Budapest, ma comunque in atto da almeno due anni e intensificata negli ultimi mesi, sotto la pressione di intellettuali e dissidenti e soprattutto per l’azione sotterranea e capillare della Chiesa evangelica, l’unica vera coscienza critica del regime.

Proprio la Chiesa evangelica era infatti riuscita a favorire  « scambi » culturali in nome delle comuni tradizioni storiche (Federico II, la Prussia, Lutero, Muenzer) che allargavano di fatto le maglie del regime a proposito di viaggi ed espatri. Ed era la Chiesa evangelica la sola entità a disporre di una stampa relativamente libera, per quanto ripetutamente sottoposta a censura o limitata dalla fornitura di carta. Gerhard Thomas, il direttore del settimanale Die Kirche, diceva: «Lo Stato paternalista toglie il senso della responsabilità e perde la fiducia e la partecipazione dei cittadini. Le nuove generazioni vogliono esprimere sogni, idee, creatività, non essere regolamentati dalla nascita »

Già nell’estate dell’Ottantasette, anche per la spinta delle Chiese, le municipalità delle due Berlino avevano deciso, con il semaforo verde dei rispettivi governi, di celebrare una sorta di giubileo unitario dei 750 anni dalla fondazione della città. Un palese pretesto, un modo per esaltare il detto popolare di una metropoli in «perenne divenire», la suggestione di un popolo diviso dalla storia, ma unito sotto lo stesso cielo.

Le parole d’ordine, nemmeno pronunciate ufficialmente, erano distensione, normalizzazione delle relazioni politiche, facilitazione dei rapporti sociali e dei bisogni dei cittadini. Il tutto con una buona dose d’ipocrisia e di calcoli reciproci. Per la Germania occidentale, le aperture verso il regime dell’Est (Il presidente Eric Honecker era stato addirittura ricevuto a Bonn con tappeti rossi, appunto come un capo di Stato «riconosciuto») erano probabilmente dettate dalla necessitá e speranza di trovare strade percorribili e soluzioni che in ogni caso migliorassero i rapporti fra i due Paesi e le condizioni dei fratelli separati. Con una certa incredulità, dobbiamo ricordare oggi che il traguardo della riunificazione, riaffermato come ideale culturale e storico dall’opinione pubblica della Germania di Bonn, sembrava in quei giorni ancora un sogno irrangiungibile: tanto valeva migliorare lo stato delle cose e rendere i tedeschi dei due Paesi comunque più vicini.  Ieri, come oggi nell’Europa dell’euro, la Germania teneva d’occhio anche bilanci e prospettive mercantili: non riconoscendo il Muro come frontiera, i prodotti dell’Est non erano soggetti a tassazione e alcuni prodotti  «made in Germany» per i mercati occidentali erano in realtà prodotti ad Est. Già allora, la Germania si preparava alla conquista dell’area post comunista.

Per la nomenklatura del regime, le concessioni erano una scelta quasi obbligata per calmare l’ebollizione sociale e rafforzare la stabilità di un sistema che ormai non era più in grado di garantire nemmeno quel genere di vantaggi privati e primati collettivi su cui, per anni si era retta la propaganda: i progressi tecnologici, le vittorie sportive, la casa per tutti, la sicurezza del lavoro, i servizi sociali. Tutto era diventato precario, difficile, insopportabilmente selettivo, a colpi di privilegi e corruzione.

Bastava lasciare la capitale dell’Est, con i suoi palazzi rinnovati e monumenti restaurati con dispiego di risorse, e scendere in Turingia e Sassonia, o spingersi all’estremo nord-est, da Rostock a Francoforte sull’Oder, per constatare le reali condizioni del «socialismo realizzato».

Città ancora bellissime, come Lipsia, Dresda, Magdeburgo, Erfurt, mostravano le ferite della decadenza e dell’inquinamento: lunghe teorie di palazzi sfatti, con le facciate sbriciolate e annerite dalla fuliggine. Per questo, la rivoluzione dell’Est scoppiò da queste parti, ancora prima che a Berlino. La periferia contestava in blocco il regime, ma anche i satrapi locali e il centralismo della capitale che ormai prosciugava in tutti i sensi le residue risorse del Paese.  A Berlino, due terzi delle case erano state ricostruite o rinnovate dal dopoguerra. A Lipsia, settantamila appartamenti non erano più abitabili. Proprio a Lipsia, il grande direttore d’orchestra, Kurt Mazur, lanciò un appello al dialogo e aprì la sala dei concerti ai dibattiti e alle assemblee popolari. Un gesto simbolico, che però ebbe subito l’effetto di un’altra picconata al regime.

La gente si radunava nelle Chiese evangeliche e quelle che si tenevano ogni lunedi non erano propriamente veglie di preghiera. Le Chiese erano diventate luoghi di assemblee, al riparo dalla repressione. E dopo la « preghiera », un lungo corteo di candele si snodava per le città. Prima silenzioso, poi sempre più imponente e deciso a far sentire la propria voce. I gruppi d’opposizione sono ancora divisi, fragili, senza soldi e senza dirigenti legittimati come interlocutori. Ma la rivoluzione della Germania comunista non avrà bisogno nè di leader, nè di partiti, nè di eroi. La sua forza sarà un popolo intero per le strade e un popolo intero deciso a cambiare o ad andarsene.

Il dissenso cominciava a fare breccia anche nelle gerarchie, minate dalla corruzione, dalla diffidenza reciproca, dal conflitto generazionale. Persino qualche dirigente di partito si spinse a chiedere la libertà di viaggiare. Roland Woetzel, economista quarantenne, nuovo segretario del partito a Lipsia, mi disse in un’intervista: « Non possiamo perdere un solo minuto e dobbiamo cambiare tutto, compresi questi uffici inutilmente pomposi. Il ruolo guida del partito dobbiamo guadagnarcelo in libere elezioni. Non è un diritto ! Se recuperiamo fiducia, possiamo risorgere. Non voglio che il mio Paese diventi una specie di colonia dell’Ovest. Ma il tempo stringe. »

Per quanto  fedeli a una concezione ideologica dello Stato e della società, i dirigenti della RDT si erano ormai spaccati fra quanti avrebbero voluto introdurre riforme in sintonia con Mosca per stabilizzare il regime e quanti continuavano a temere che le riforme avrebbero travolto il sistema stesso. Probabilmente, come la Storia dimostró in pochi mesi, avevano ragione entrambi gli schieramenti.

Le concessioni del regime ebbero infatti l’effetto di un chiodo piantato in una gomma, un soffio prima impercettibile poi sempre più prepotente, fino a diventare lacerazione irreparabile. I permessi di viaggio, fino a quel momento concessi soltanto agli anziani (che per la maggior parte tornavano a casa) e ai funzionari fedeli e in missione, divennero più numerosi, sia pure centellinati. Inoltre la Germania occidentale «comperava» fuggitivi: nel senso che, ogni anno, alcune migliaia di Ossis potevano espatriare legalmente e il regime otteneva una sorta di risarcimento. Inoltre potevano essere «comperati» , per diecimila marchi, dissidenti e prigionieri politici, fra i quali c’erano per lo più coloro che avevano tentato di saltare il Muro. Le domande di espatrio, da alcune migliaia all’anno erano diventate centinaia di migliaia. E il regime non poteva permetterlo.

Tuttavia non era più necessario rischiare la vita per oltrepassare il Muro. Non solo perchè l’ordine di sparare a vista era stato allentato e si «limitava» a un arresto e a un processo.  Il Muro si poteva tentare di aggirarlo, infilandosi nelle maglie strette dei regolamenti, facendo breccia nell’ottusità dei gerarchi, i quali non percepivano il fatto che un permesso di viaggio potesse trasformarsi in un biglietto di sola andata.

La possibilità di visitare i Paesi dell’area comunista trasformó all’improvviso i tedeschi dell’Est da turisti in profughi ed espatriati. L’apertura del confine fra Ungheria e Austria divenne una sorta di viatico verso la libertà e, soprattutto, verso la Germania occidentale. L’ondata di tedeschi dell’Est, suscitava emozioni e speranze, ed era al tempo stesso fonte di apprensione per sviluppi ancora imprevedibili. il regime di Honecker oscillava fra sordità e realismo, piani repressivi e impotenza.

Un giornale di regime, Junge Welt, si domandava con disarmante idealismo in che modo fosse possibile impedire che tanti giovani «si facessero irretire da vetrine piene di banane e guide turistiche». La gerarchia, su altri organi, reiterava la campagna di accuse contro Paesi fratelli divenuti ormai alleati inaffidabili. In una nota diplomatica, si chiedeva l’immediata chiusura delle frontiere con l’Austria e il rispetto degli accordi volti a impedire le partenze « illegali ».

Ma intanto, a migliaia, se ne andavano. Con ogni mezzo, sfidando le autorità e situazioni incerte, non ancora consolidate da nuove regole. I confini erano aperti, ma la sorveglianza più stretta.

Fra la massa dei «turisti-fuggiaschi», che raggiungevano normalmente la frontiera con auto e torpedoni, si susseguivano testimonianze di avventure roccambolesche, tragitti di paura e sacrificio, di rischiose partenze organizzate in segreto, tenendo all’oscuro persino i parenti, i genitori, gli amici. Ma era una massa di profughi particolare, molto diversa dal passato della Germania comunista e dalle ondate di rifugiati e migranti che attraverseranno l’Europa del dopo Muro. Non c’erano rimpianti, nè lacrime, ma l’ebbrezza euforica del nuovo mondo, di una nuova vita.

C’era il portiere del «Karl Marx Stadt», fuggito con la moglie Carolina, che sognava di giocare nel più prestigioso Bayer Monaco. Così spiegava la sua decisione :  «Guadagno cinque volte il salario dell’operaio, come tutti gli sportivi sono un privilegiato, ma non si può vivere senza libertà».  Alois e Kerstin, quarant’anni in due, lui meccanico, lei dentista, avevano saputo che il momento era propizio per andarsene senza troppi rischi e avevano deciso di abbandonare tutto: casa, ufficio, genitori, lavoro. «Faremo più sacrifici ? Forse. Ma finora abbiamo conosciuto soltanto un pezzo del mondo.

E non ci piace !»

Un professore di Lipsia, fuggito con la moglie e un figlio, studente universitario, spiegava : «Con due stipendi, possiamo permetterci l’auto e il telefono, una rarità dalle nostre parti, e anche buoni ristoranti. Ma siamo come imbalsamati. Nessun futuro, nessun progetto. Nostro figlio non crescerà così ».

Un ragazzino, Thomas, finì sui giornali della Germania occidentale con una storia da libro « Cuore ». Era arrivato da solo nella tendopoli, con uno zaino e un sacco a pelo. Un’anziana zia, fuggita molti anni prima, lo aveva riconosciuto nei reportages televisivi ed era corsa a Passau per abbracciarlo e offrirgli una nuova famiglia.

Reiner e Antje Noack, allora trentenni, fuggiti con una bambina di quattro anni, furono celebrati come eroi in quell’estate straordinaria. Attraversarono il Danubio di notte. Partirono da Rostock, il porto industriale della Germania Est, e arrivarono al confine ungherese. A Storovo, comprarono due materassini, di quelli che si gonfiano in spiaggia, e qualche sacchetto di plastica per infilarci abiti e documenti. Con l’auto perlustrarono la riva del fiume alla ricerca di un tratto meno pericoloso, per evitare gorghi e correnti fortissime. «Adesso, vedrai, facciamo un bel bagno » dissero alla bambina. E poi via, a nuoto, con la figlia legata al materassino.

Dall’altra parte della riva, approdarono nel recinto di una fabbrica. La polizia sorvegliava le sponde. Tutto sembrò perduto, ma una custode comprese il loro dramma. Aprì in fretta i lucchetti, regalò una manciata di spiccioli e li lasciò raggiungere il campo profughi.  Reiner raccontò di essere già fuggito una volta, riuscendo a raggiungere un parente a Glasgow, ma di essere stato costretto a tornare poichè il regime non lasciava partire la famiglia.

Ai primi di ottobre, alla stazione ferroviaria di Dresda, arriva un convoglio carico di tedeschi orientali, da settimane rifugiati nell’ambasciata della Germania occidentale a Praga.

Il regime dell’Est, dopo giorni di tensione e trattative, fece un’ultima concessione che si rivelerà mortale per il regime stesso. I « fuggiaschi » possono andare dove vogliono, ma devono riparassare dalla RDT per «rinunciare» alla cittadinanza : una tappa burocratica, che però si trasformò per l’opinione pubblica internazionale in un ennesimo segnale di sgretolamento.

Il passaggio dei fuggitivi sotto gli occhi di quanti erano rimasti a casa innesca tuttavia uno straordinario rivesciamento delle parti. Certo ci sono abbracci, saluti, incoraggiamenti. E qualcuno riesce persino a saltare sul treno in corsa. Ma quanti rimangono ritrovano all’improvviso un senso di appartenenza alle proprie radici, alla terra e alle città dove sono nati. Per carità, nessun patriottismo di regime. Ma l’idea sempre più diffusa e vibrante che la Germania dell’Est vada salvata, rigenerata dalle fondamenta, in definitiva riformata in senso democratico, come qualsiasi Paese dell’area comunista. «Noi siamo il popolo!» «Noi non vogliamo andarcene!» si comincia a urlare per le strade di Lipsia, Magdeburgo, Dresda, Halle.  Il messaggio è chiarissimo: è il regime che costringe le nuove generazioni ad andarsene, è il regime che non ha futuro. La prospettiva della riunificazione è ancora lontana. La cultura socialista impregna anche molti leader del dissenso e gran parte degli scrittori e degli intellettuali più critici, come Christoph Hein o Christa Wolf. Tutti chiedono diritti, libertà d’espressione, lotta alla corruzione. Non è in gioco una trasformazione mercantile e occidentale della società. La pittrice Barbel Bohley, più volte arrestata, animatrice del gruppo d’opposizione «Neues Forum», conversando con i giornalisti nei giorni immediatamente precedenti alla caduta del Muro, diceva: «Noi vogliamo partecipazione e democrazia. E’ sbagliato collegare la nostra lotta alla riunificazione tedesca. Sono passati quarant’anni. Abbiamo avuto uno sviluppo diverso. C’è un diverso modello di vita. La società capitalista ha molti lati negativi, come la disoccupazione e l’individualismo. I tedeschi dell’Est troveranno una loro strada….»

Si sbagliava la bella pittrice, allora quarantenne. Come si sbagliavano gli intellettuali come lei. E così si sbagliavano i dirigenti comunisti. Ma anche le cancellerie occidentali, gli osservatori sul posto, gli stessi giornalisti che seguivano gli avvenimenti e raccontavano manifestazioni sempre più diffuse nel Paese e sempre più numerose, non avevano ancora la netta percezione che il cambiamento inesorabile dei rapporti di forza e della situazione sociale avrebbe travolto in pochi giorni anche il Muro, il regime, le strutture dello Stato, l’idea stessa di un’ «altra» Germania.

Una data storica, certamente decisiva quanto il giorno dell’apertura del Muro, è il 4 novembre. E’ il giorno più lungo del regime, il preludio della fine. La corsa contro il tempo per puntellarne le radici e promettere un impossibile rinnovamento è giunta al capolinea. A decine di migliaia manifestano da settimane in tutte le città, ma quel giorno a Berlino sono quasi un milione. Tutto un popolo si è messo in marcia, nel cuore della capitale. Ha ottenuto le dimissioni del vecchio Honecker e di alcuni gerarchi, la promessa di libere elezioni e ovviamente questa libertà di manifestare, sfogare rabbia e dissenso, invocare l’aiuto di Gorbaciov e inneggiare al nuovo che avanza nel mondo comunista. L’incubo per un piano segreto di repressione sanguinosa è svanito. Quelli che hanno trovato il coraggio di sfidare il regime quasi non credono ai loro occhi. Quelli che hanno avuto la forza di restare, sentono che la loro resistenza e i loro sacrifici non sono stati inutili. E quelli che se ne sono andati si sono persi la scena della rivoluzione.

Alexander Platz è la Bastiglia, esattamente due secoli dopo, con tante teste che, simbolicamente, cadono nella spazzatura della Storia. Poi tutti, rivoluzionari e fuggiaschi, torneranno, 25 anni dopo, all’unico ordine possibile: quello di Angela Merkel, la ragazza dell’Est diventata la madre della nuova Germania.

pubblicato nel 2014 in Il crollo del muro di Berlino e la nascita della nuova Europa di Antonio Carioti, Paolo Rastelli, con il titolo Conto alla rovescia per la DDR.

Disponibile in e-book :

https://store.corriere.it/Il-crollo-del-Muro-di-Berlino/Q9.sEWcV5YMAAAFJM1gJ8oOj/pc?CatalogCategoryID=80OsEWcW3TUAAAFGGghgVTcr