Le Monde cita la Bibbia per evocare la punizione dell’Egitto e rilanciare l’allarme sulle conseguenze dei cambiamenti climatici: catastrofi in serie, la metà della popolazione mondiale minacciata, una contabilità di 467 forme diverse di danni alla salute, all’economia, all’ambiente. Come spiegare la durissima, a tratti violenta, mobilitazione dei “gilet gialli” nel Paese che al capezzale del pianeta ha chiamato a raccolta l’intera comunità internazionale? Come comprendere il consenso popolare a blocchi di autostrade e raffinerie, nonostante anche la Francia continui a subire danni ambientali? Bastano a scatenare la protesta, che continuerà con una manifestazione a Parigi, leggeri aumenti del prezzo della benzina e disincentivi per il diesel, piccoli passi di un vasto piano di transizione ecologica su cui ha scommesso il presidente Macron?

L’intenzione di non fare marcia indietro ha allargato il solco fra opinione pubblica e l’Eliseo. La popolarità di Macron subisce così un altro duro colpo, proprio in relazione a una delle battaglie piú nobili. L’altra, che in questo momento non ha miglior fortuna, é il rilancio dell’Europa assediata da populismi e rigurgiti sovranisti.

La protesta – spontanea, online, senza leader, senza partiti, scollegata da sindacati e associazioni  – ha tuttavia cause piú profonde di una presunta “insensibilità” ecologica. Le categorie sociali coinvolte sono le piú sfavorite sul piano economico – agricoltori, camionisti, pensionati, casalinghe –  e le piú penalizzate da un sistema di trasporti pubblici che, per quanto esteso ed efficiente, implica comunque milioni di spostamenti quotidiani su gomma. Si ripropone l’americanissimo “not in my yard”, ovvero l’idea che il prezzo dell’economia verde debba essere pagato da altri : da quanti possono permettersi le tasse sulla benzina o l’acquisto di un’auto elettrica e i residenti dei centri storici, sociologicamente inquadrati in una cultura ecologica da salotto. Una difesa di interessi prioritari che, per inciso, ha fatto la fortuna di Trump, il primo a disattendere gli accordi sul clima e a proclamare il trionfo del carbone.

Emblematica la situazione di Parigi, con milioni di pendolari imbottigliati nelle periferie e i quais sulla Senna chiusi al traffico per le biciclette dei residenti. E’ un conflitto sociale che si ripropone su temi ancora più sensibili – si pensi alla sicurezza e all’immigrazione – fra il politicamente corretto e i bisogni e le sofferenze dei ceti piú deboli.

Al senso della protesta dei gilet gialli, si sovrappone dunque una rabbia latente e profonda, e non abbastanza diagnosticata, dal giorno dell’elezione di Macron, arrivato all’Eliseo grazie al sistema elettorale, ma con una forza minoritaria, presa da subito a tenaglia dai populismi di destra e di sinistra che soffiano sul fuoco, sia che si tratti di ferrovieri o insegnanti o infermieri in sciopero, sia che si tratti di automobilisti o fans del diesel. Bollato come “presidente dei ricchi” Macron non ha abbastanza tempo per dimostrare che la strada delle riforme – non solo quella della transizione ecologica – darài suoi frutti anche a vantaggio dei ceti popolari.

Un ritardo che complica le residue speranze di rilancio della costruzione europea, anche in rapporto alle difficoltà del maggior partner di riferimento, Angela Merkel. Ed é paradossale che i problemi di leadership dall’altra parte del Reno siano determinati anche dalla crescita dei “Grüner”, il partito verde che miete consensi con una combinazione di cultura ecologica e solidarietà sociale, evidentemente piú efficace e meno culturalmente elitaria che a Parigi.

Non da oggi, peraltro, la sensibilità popolare tedesca é favorevole alla transizione. Gli spettri della guerra nucleare, le piogge acide, il drammatico inquinamento della ex DDR, il disastro di Cernobyl, lo scandalo delle emissioni diesel truccate, hanno convinto i tedeschi della giusta causa molto prima degli irriducibili automobilisti francesi.

 

L’articolo è stato pubblicato il 21/11/2018 sul Corriere della Sera