A pochi mesi dalle elezioni europee, il populismo è il solo movimento che raccoglie consenso. Nei ricchi Paesi del Nord come nel Sud impoverito, crescono formazioni con storie e anime diverse (estremismo di vario colore, localismo, nazionalismo, xenofobia) e un unico denominatore: rigetto dell’Europa, delle classi dirigenti, dei partiti tradizionali, del faticoso e talvolta incomprensibile funzionamento della democrazia.
Nessun Paese ne è immune: Norvegia, Olanda, Austria, Finlandia, Gran Bretagna, Grecia, Spagna, Italia, fino alla Francia (in cui il Fronte Nazionale potrebbe diventare il primo partito) e, a ben vedere, anche la Germania. Il movimento antieuropeo Adf ha mancato l’ingresso al Bundestag, ma la sua ascesa ha condizionato la politica europea della Cancelliera Merkel. La Germania è però un’eccezione di altro genere sui cui dovrebbero riflettere tanti «rottamatori » e profeti di novità: largo consenso a un vecchio partito cristiano e a una sessantenne senza appeal alla terza legislatura.
La destabilizzazione globale della finanza, la moltiplicazione dei conflitti, le tensioni religiose hanno come effetto la disperazione dei più deboli, l’impoverimento delle classi medie, l’aumento dei flussi migratori, la crisi identitaria dei popoli, il ripiegamento su un’idea di nazione e di frontiere invalicabili, mentre circolano liberamente uomini, merci e capitali e declinano gli Stati nazionali.
Dei movimenti populisti conosciamo ormai cause e conseguenze, oltre alla capacità — spesso cinicamente intelligente—di cavalcare bisogni anche condivisibili, di fare come quei galli che cantano per un sole che non sorge mai. Ma stentiamo a individuare gli antidoti e a costruire politiche che potrebbero arginare il fenomeno, anziché nutrirlo.
Tucidide considerava la demagogia la malattia mortale della democrazia, ma demagogia e populismo non sono sinonimi. Problematiche che investono drammaticamente vasti strati di popolazione non dovrebbero rientrare in una definizione talvolta sprezzante, intellettualmente elitaria. Non è populismo la domanda di sicurezza, di partecipazione alle scelte nazionali ed europee, di giustizia fiscale, di controllo dei flussi migratori, di rispetto delle tradizioni e della cultura nazionale. Non è populismo la difesa dei propri interessi di cittadini rispetto a un modello europeo che ha tradito le attese.
Si rischia invece di alimentare il populismo se i governi scambiano il dialogo con il potere di blocco delle minoranze, se si ingannano i cittadini abolendo una tassa per riproporla con un altro nome, se si confondono i livelli di responsabilità, se si danno all’Europa colpe nazionali, se l’ordine pubblico diventa la sola bussola di una società per forza di cose multietnica. Quasi mai il confine fra le due opzioni è subito visibile, come dimostra la vicenda che in questi giorni scuote la Francia. Ma è urgente stabilirlo.
Espellere un’adolescente clandestina, facendola prelevare dalla polizia durante una gita scolastica, non è stata una dimostrazione di umanità. La decisione divide la sinistra. Il presidente Hollande dice che la ragazza può tornare, ma senza famiglia, con uno strappo allo Stato di diritto e al buon senso, mentre il ministro degli Interni socialista difende la linea della fermezza e i francesi l’approvano.
Come ha detto il politologo Offe, il populismo ha consenso, ma non saprebbe governare; le classi dirigenti e la tecnocrazia spesso governano senza consenso e senza coraggio. Il che non produce buona politica. Come ha detto il politologo