Qualcuno parlerà di nuovo Sessantotto francese, per questo rituale della « révolution » che da tre sabati va in scena a Parigi con barricate e scontri con la polizia e profanazione di luoghi sacri come l’Arco di Trionfo, che si allarga agli studenti e s’infiamma con la guerriglia urbana di gruppi di facinorosi. Forse è più appropriata l’immagine di sanculotti del web, popolo senza leader e senza colore politico che non sia il giallo dei gilet, mobilitato spontaneamente dalla rete, determinato nelle proprie rivendicazioni, unito nella contestazione di Macron, fino a un’improbabile richiesta di « decapitazione del re », ossia di una sua meno cruenta e piu attuale destituzione.
Comunque la si voglia definire, la protesta esprime rabbia e sdegno di vaste aree del Paese, di lavoratori e ceti medi impoveriti, che avvertono il potere politico centrale come sordo, lontano, incapace di coniugare pur ambiziosi progetti riformatori con i bisogni quotidiani della gente comune. « Loro parlano di fine del mondo, mai noi non arriviamo alla fine del mese », diceva un gilet jaune, marcando l’impossibile sintesi fra transizione ecologica e prezzi da pagare per attuarla. Il web fa da catalizzatore di ogni grido di dolore contro l’aristocrazia parigina, intesa come élites, poteri centrali, burocrazie ministeriali, tecnocrati. Finora, a questa Francia per lo più bianca che si rivolta dal basso e che ha il sostegno dell’opinione pubblica non si sono unite le periferie, i « territori off limits » della Repubblica, teatro di rivolte degli scorsi anni e polveriera di problemi e drammi irrisolti. Ma la saldatura è possibile e segnerebbe l’irreversibile declino di Macron.
Come tutti i predecessori, da Mitterrand in poi, Macron paga la tradizionale idiosincrasia dei francesi alle riforme, essendo più inclini alla conservazione e a peridiche esplosioni di rabbia rivoluzionaria che spesso costringono l’esecutivo a rovinose marce indietro. Nemmeno il giovane presidente è stato in grado di compiere una rivoluzione di metodo: come il più classico dei tecnocrati cresciuti nelle scuole di amministrazione – la classe di « mandarini » che presiede i destini della Francia – ha creduto che bastasse avere delle buone idee e che fosse sufficiente calarle dall’alto per realizzarle. Macron sconta inoltre i limiti istituzionali del modello francese, la debolezza o l’assenza di corpi intermedi in grado di assicurare rappresentanza e dialogo, per cui la vita politica si sostanzia nella dialettica fra centro e periferia fino allo scontro fra popolo ed Eliseo. Infine, non va dimenticata la debolezza d’origine di un giovane presidente acclamato più all’estero che in patria, eletto con una forza minoritaria ed eterogenea, stretto nella tenaglia dell’estrema destra e dell’estrema sinistra che soffiano sul fuoco. Da ultimo, come è d’obbligo nella scenografia della rivoluzione, arrivano le pugnalate alla schiena del vecchio potere. Dai margini di una stagione finita, l’ex presidente François Hollande e l’ex ministro dell’ecologia (sic!) Ségolène Royal – un tempo uniti anche nella vita – fanno coppia politica animata dal rancore e denunciano errori e verticismo di Macron.
Il presidente sembra deciso a non mollare, salvo piccole concessioni fiscali che peró non frenano la piazza. Anzi, lo scontro sociale potrebbe incattivirsi, come si è visto ieri. La discesa in campo di gruppi violenti espone a nuovi rischi una società tutt’ora esposta a minacce terroristiche. Le violenze di ieri dimostrano anche una sostanziale debolezza dell’apparato di controllo dell’ordine pubblico.
L’immagine di Paese forte e coeso si conferma falsata da sacche inimmaginabili di povertà e disagio sociale.
Il fragile futuro di Macron non è una buona notizia (in parallelo con il declino di Angela Merkel) per chi aveva scommesso sul fervore europeista del giovane presidente per arginare l’onda populista e sovranista che minaccia l’Europa. Il movimento dei gilet jaunes, per ora non classificabile, conferma il teorema che tante minoranze perdenti e indifese possono diventare maggioranza.
L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della sera del 2/12/2018