La pizza è una delle cose più banali e al tempo stesso più apprezzate dall’uomo sapiens. A qualsiasi latitudine, sa di casa, convivialità, persino di primi amori e soddisfa appetiti primordiali anche quando ricorda una suola di scarpe o perde parte del gusto nel tragitto che compie in scatole di cartone verso casa. E ci sono le pizzerie, con il profumo che si spande per la strada e le insegne che nel corso del tempo le trasformano in locali storici, ritrovi abituali e punti di riferimento obbligati, anche all’estero, dove « da Ciro » o da « Vincenzo » significa talvolta imbattersi in un pizzaiolo egiziano o messicano e masticare gomma al pomodoro. Avendo fatto per tanti anni l’inviato in tutto il mondo e il corrispondente dalla Francia, ho esperienza di certe improbabili piadine che si ostinano a chiamare pizza e che molti divorano arricchendole con Ketchup.
E poi c’è una pizzeria come Ciro a Santa Brigida, che non significa solo pizza, per quanto buonissima. Anzi, probabilmente ce ne sono di migliori, secondo l’eterna diatriba fra clienti, turisti, gastronomi e pizzaioli a caccia di inutili premi. Significa ricordi che affiorano, momenti, serate, e, per quanto mi riguarda, una stagione della mia esistenza professionale, quando Alberto Cavallari, direttore del Corriere, mi spedì nella Napoli del terremoto e afflitta dalla camorra di Cutolo.
Ero un giovanissimo inviato e, come tanti di ogni generazione, avevo messo in pratica una delle regole fondamentali del mestiere: sapere scegliere un ristorante in cui nutrirsi senza conseguenze nefaste e in cui incontrare la «gente del posto», cronisti locali, avvocati, professionisti e in questo caso «veri napoletani». E siccome la regola era nota anche ad altri colleghi, «Ciro a Santa Brigida» divenne un luogo d’incontro fisso dove darsi appuntamento senza bisogno di fare una telefonata, essendo l’epoca ancora sprovvista di IPad e cellulari.
Il profumo della pizza avvolgeva così notizie, chiacchiere, analisi, e se pranzavi da solo anche qualche possibile scoop.
Subito però compresi che prima di conoscere frequentatori e colleghi avevo incontrato il mio Virgilio nel ventre di Napoli. Lucio era un cameriere professionista, ma avrebbe fatto una bella figura nella redazione della Treccani e una ancora migliore in una qualsiasi redazione per l’uso magistrale del congiuntivo. Non ho mai saputo se sapesse scrivere, ma certamente sapeva parlare e leggere. Di tutto. Romanzi, saggi, poesie e sopratutto articoli di giornali. Citava a memoria fondi e reportage e con un certo vezzo cercava di cogliere in fallo la narcisistica propensione di colleghi alla citazione dotta. Un famoso direttore del passato, Alberto Ronchey, era un maestro del genere. Lucio contestò anche lui a proposito dell’URSS, e di una citazione da Lenin, credo, ma non osai contraddirlo.
E siccome era profondamente e inguaribilmente napoletano si divertiva a improvvisare una scenetta da prestigiatore, presentando il piatto di pesci freschi, anzi ancora vivi, tanto che muovevano la coda, quella coda che in effetti tremolava da sotto il vassoio grazie all’abile movimento del dito medio di Lucio.
E’ ovvio che fu il primo a darmi buone notizie e a spiegarmi che cosa ci fosse di vero dietro tanti stereotipi e pregiudizi sulla sua città. E’ grazie a lui – chissà se ci sei ancora, amico mio – che ho evitato di scrivere banalità e ho ottenuto qualche riconoscimento. Ed è grazie a lui che ho frequentato la sua pizzeria in tante serate, per tanti mesi, nei miei anni napoletani. Ci sono tornato, molti anni dopo, con le mie figlie che nel frattempo erano nate e che, essendo cresciute da milanesi, non avevano ancora capito come è fatta davvero e che sapore ha quella cosa con la mozzarella e pomodoro che anche altrove chiamano pizza. Io invece avevo capito che la mia giovinezza napoletana era finita.
Questo articolo è stato pubblicato l’8 agosto 2019 sul Corriere del Mezzogiorno – Edizione di Napoli – con il titolo “Lucio il cameriere”