La mia carriera ripercorsa attraverso le domande di un giovane giornalista
Lei ha iniziato giovanissimo a scrivere sui giornali, nel 1966, a sedici anni: come mai così presto?
La partenza è naturalmente casuale: frequentavo il liceo classico Parini a Milano, istituto di un certo valore, dove c’era un giornalino – diventato molto famoso poi nei moti del Sessantotto – di nome La zanzara. Ho quindi iniziato a lavorare in redazione e lì è nata la passione.
E nel 1969 inizia all’Avvenire.
Lì c’è stato un incontro casuale durante le vacanze estive con il Direttore dell’epoca, Leonardo Valente – ex giornalista della RAI, scomparso piuttosto giovane – il quale aveva avuto l’incarico ambizioso – ma complicato – di fondere due giornali: l’Avvenire e L’Italia, due giornali d’ispirazioni cattoliche diverse. Uno più tradizionale e conservatore, l’altro più aperto al dialogo e al dissenso (era un’epoca di forti travolgimenti sociali, culturali ed economici). L’esperimento non durò tantissimo, di fatti Valente si dimise e venne sostituito da un Direttore più tradizionale, che era Angelo Narducci, anche se lo spirito del giornale rimase inalterato. A Milano c’erano già molti giornali importanti: l’Unità del Partito Comunista vendeva molte copie, il Corriere della Sera, Il Giorno; e di lì a poco sarebbero nati il Giornale – con la scissione di Indro Montanelli – e nel ‘76 la Repubblica. In questo panorama, l’Avvenire era un’officina di giovani: molti giornalisti della mia generazione – tra cui Walter Tobagi – hanno fatto brillanti carriere.
Era pericoloso stare in giornali come l’Avvenire nel Sessantotto?
Pericoloso non direi: essendo piccolo, aperto, battagliero, evidentemente c’erano dei temi – come l’aborto e il divorzio – che non potevano essere trattati con disinvoltura. Era giornale molto attento ai sindacati, alla chiesa del dissenso, ai poveri, alle istanze sociali di quell’epoca. Ricordo che seguii il sindacato, le cronache giudiziarie, i moti studenteschi. Era un momento di grande cronaca giudiziaria: nel ‘69 c’è la strage di Piazza Fontana. Le indagini sulle piste nere o anarchiche – caso Pinelli, caso Calabresi – hanno segnato un’epoca ed erano le prime avvisaglie del terrorismo. C’erano movimenti sovversivi in Trentino-Alto Adige, movimenti insurrezionali nell’alta Valtellina, attentati … La cronaca giudiziaria era molto importante e i grandi giornali erano piuttosto impreparati a questa ventata professionale e quindi pescarono anche diversi giornalisti proprio da Avvenire. Di fatti entrai al Corriere a venticinque anni. Milano era una città complicata: con le elezioni comunali del 1975 c’è stata la prima giunta rossa. Sembrava di stare nel centro di una grande svolta eversiva e reazionaria, ma al contempo Milano era la città dei grandi movimenti di piazza e delle grandi manifestazioni sindacali. I sabati erano complicati con manifestazioni e contromanifestazioni, fino ad episodi drammatici come l’uccisione a randellate di Ramelli o gli spari della polizia alla Bocconi che uccisero Franceschi, fino al ‘77 quando i terroristi di Prima Linea spararono alla Polizia. Da lì iniziò l’epoca delle Brigate Rosse, che raggiunse l’apice con l’omicidio di Aldo Moro.
Nel frattempo, lei era anche andato negli Stati Uniti e si trovò nel bel mezzo del Watergate.
Non ci sono andato apposta: era più una questione personale. Avendo cominciato presto a fare il giornalista, bruciai molte tappe, ma ad un certo punto mi resi conto che dovevo maturare su altri fronti, non mi ero ancora laureato, parlavo malissimo l’inglese perché avevo studiato il tedesco, non avevo fatto vacanze e viaggi … Insomma: le tipiche cose che si fanno a vent’anni con gli amici, cioè partire con lo zaino. Mi sono quindi girato l’America da solo con i pullman della Greyhound. Sin da bambino ero amico di Vittorio Zucconi di Repubblica, che era già corrispondente a Washington per La Stampa. Stetti anche un mese a casa sua: seguire il Watergate dall’ufficio della Stampa e dalla casa di un grande giornalista per me è stato un privilegio.
Al Corriere c’era Piero Ottone …
C’era la fama – e la propaganda – per cui al Corriere entravano solo giornalisti comunisti.
Ed era così?
No, non era così, anche se noi eravamo un gruppo di giornalisti di sinistra (c’era la necessità di ovviare alla diaspora montanelliana): molti entrarono al Corriere dal Giorno, dall’Avanti!, dall’Unità, dall’Avvenire. Come si usa nei giornali, la prima persona che incontri è il Direttore, che ti vuole conoscere. Prima di Ottone incontrai il Vicedirettore Di Bella, che era una persona di grande umanità – quasi un padre – al di là degli scandali successivi. Lo ricordo con grande affetto, perché quando ammazzarono Tobagi lui era Direttore e mi incaricò di fare il servizio; venne dietro alla mia scrivania, battendomi sulla spalla, visto il trauma. Mi disse: «Guarda che Ottone guarda negli occhi la gente, cerca di non abbassare mai lo sguardo, perché da lì lui capisce se una persona è intelligente e merita di stare al Corriere.» Per cui entrai nello studio di Ottone – che è uguale a quello di adesso, con la Treccani alle spalle e la scrivania in mogano – e lo guardai negli occhi. Ebbi qualche problema con il comitato di redazione dell’epoca, che era in mano a persone vicine al PSI di Craxi e che cercavano di fare entrare i loro uomini. Tanto è vero che firmai il contratto il primo maggio, quando il giornale era deserto. Rispetto alla stampa di oggi è incredibile che allora gli amministratori dei grandi giornali facevano un’offerta che non potevi rifiutare e soprattutto era talmente importante quell’offerta rispetto allo stipendio che avevo prima che non ebbi neanche la forza di replicare (probabilmente se avessi chiesto qualcosa in più me lo avrebbero dato). Adesso è esattamente il contrario: a momenti, per scrivere bisogna pagare.
Alla fine, si laurea in filosofia, ma studi come questi sono essenziali per gli studenti che volevano e vogliono fare i giornalisti?
All’epoca le scuole di giornalismo non c’erano: si era giornalisti consumando le suole delle scarpe. C’era il famoso praticantato di diciotto-venti mesi, poi c’era l’esame di Stato ed entravi nell’Ordine. Naturalmente, una laurea di allora valeva qualcosa di più, così come conoscere le lingue. La carriera era un qualcosa da costruire artigianalmente: eri giudicato per la tua bravura o inefficienza, ma di sicuro non solo in base a tuoi titoli di studio. Spesso la scrittura è anche solo un dono: la parola scritta era molto più importante rispetto ad oggi. Ottone aveva introdotto una cultura più anglosassone, cioè i fatti separati dalle opinioni, la scuola di Panorama di Lamberto Sechi … Al di là del fatto che ci fossero grandi firme e senior straordinari – non solo Indro Montanelli, ma anche Mario Cervi, Egisto Corradi, Luigi Barzini, Ettore Mo, Alberto Moravia – per i giovani c’era ancora grande spazio: Ottone mi fece scrivere sulla terza pagina del Corriere tre anni dopo il mio ingresso. Uno dei miei primi servizi fu una rivolta al San Vittore, che venne pubblicato in prima pagina: per i giovani d’oggi è molto più difficile farsi strada, anche perché i vecchi sono inamovibili.
Da giovane lei è stato inviato in Africa e Asia: non sono di solito, appunto, i grandi vecchi a fare gli inviati all’estero?
Io ho cominciato all’età giusta: fino ai trent’anni mi sono occupato di cronache italiane, Brigate Rosse, terrorismo, cronaca giudiziaria, regione, municipio. Quando arrivò Cavallari c’era una tradizione – che purtroppo oggi si è persa – cioè di avere un inviato che seguisse in modo permanente il Meridione d’Italia, facendo base a Napoli, dove venni mandato e rimasi per quattro anni. Seguivo dalla Chiesa, le BR al Sud, le cronache di Mafia. All’estero andai verso i trentacinque anni, anche se mi erano capitati già diversi servizi. Era il giorno di Pasqua del 1976 ed ero di turno al giornale, quando ci fu il terremoto in Jugoslavia e mi mandarono sul posto. Avevo la fortuna di sapere il tedesco e quindi mi mandarono in Germania e in Europa dell’Est: dalla caduta del Muro ho sempre fatto estero.
Lei è molto attento all’Europa, che proprio tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta prendeva forma: oggi l’Unione è in crisi, ma quali erano le speranze di allora?
Quello europeo era un sogno rovesciato rispetto all’oggi: i paesi dell’Est – tutto sommato egemonizzati dal Patto di Varsavia e dalla presenza dell’Unione Sovietica nonostante gli anni della perestrojka – cominciavano a farsi sentire ed erano stati aperti degli spiragli culturali. Già nell’87 i rapporti tra le due Berlino erano molto migliorati e c’era un dialogo forte. I due sindaci s’incontrarono e inventarono la celebrazione dei settecentocinquant’anni dalla fondazione della città. A Berlino Est ci furono grandi restauri della città e gli avvicinamenti già si percepivano. Nell’87 andai a fare una grande inchiesta nella Germania dell’Est e non solo ebbi senza grossi problemi la possibilità di intervistare intellettuali dissidenti, ma dalle persone più attente e aperte si percepiva che il sistema della DDR – che comunque era avanzato rispetto agli altri paesi comunisti a livello tecnico-industriale – non reggeva più a livello competitivo. Inoltre, non arrivavano più aiuti da Mosca, che a sua volta aveva enormi problemi.
Era quindi annunciato il crollo del blocco dell’Est?
Non in termini così rapidi o così traumatici, se non altro non violenti, a parte la Romania e inizialmente i primi moti in Polonia all’inizio degli anni Ottanta con Solidarność. In quel momento le speranze erano moltissime: questi paesi avevano fondamentalmente per una loro storia e collocazione un’identità più europea che russa o filorussa. La Polonia aveva sempre sofferto il giogo russo: c’erano state già sollevazioni popolari nell’Ottocento, quando la Polonia era filofrancese ai tempi di Napoleone (nel mio libro Infinito amore ripercorro la storia della contessa polacca Maria Walewska), che non a caso fece la campagna di Russia e liberò la Polonia. Anche l’Ungheria era sempre stata più filoaustriaca che filosovietica (appena caduto il Muro di Berlino erano state rimesse le statue dell’imperatrice Sissi). Erano paesi che avevano storie filoeuropee e filotedesche, nonostante la parentesi nazista in cui la Germania invase i paesi dell’Est, ma non dimentichiamo che i collaborazionisti in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, eccetera, furono moltissimi. Non solo: molti nazisti si rifugiarono nella Germania dell’Est e cambiarono la casacca, diventando comunisti. Sicuramente ci fu una visione miope – per quanto ambiziosa – della Germania che in termini diversi dall’epoca nazista con altri mezzi immaginava un’egemonia sui paesi satelliti, tanto è vero che dopo la Riunificazione la Volkswagen si trasferì in Repubblica Ceca. I polacchi sono stati i primi veri immigrati in Europa: la Thatcher e Mitterrand in particolare temevano la potenza della Germania; ci fu la famosa battuta attribuita ad Andreotti, «Amo talmente la Germania che ne preferisco due.» Sicuramente c’era una grande speranza, coltivata anche da un paese fondatore come l’Italia, che vide nell’Europa una grande possibilità di sviluppo. L’Italia è stata per molti anni uno dei paesi più filo-Europa, anche se oggi tutto questo è molto meno percepito: con l’apertura della cortina di ferro e la caduta del Muro arrivarono moltissime persone nell’Europa dell’Ovest, soprattutto in Germania. Tutti loro furono accolti a braccia aperte; e si trattava di persone tecnicamente preparate (arrivarono anche le badanti rumene e gli idraulici polacchi). Il paese che ha avuto più problemi in tal senso – perseguendo una sorta di Brexit mascherata – fu proprio la Francia, che bocciò il trattato costituzionale. L’opinione pubblica francese era contraria a Maastricht: i francesi hanno sempre sfondato il patto di stabilità e hanno sempre cercato una sponda tedesca per stare in Europa in una posizione di egemonia continentale, pur non avendone in fin dei conti i requisiti in termini economici. La struttura dello Stato, l’eredità imperiali e belliche hanno dato alla Francia delle carte che nessun altro paese europeo aveva ed ha. La Francia è il paese con la maggior rete diplomatica del mondo, siede nel Consiglio di sicurezza, ha l’energia nucleare, il Parlamento europeo è a Strasburgo, le lobby francesi sono potentissime a Bruxelles, hanno occupato per merito posti chiave (Lagarde al Fondo Monetario Internazionale o Trichet alla Banca Centrale Europea ad esempio). In questo senso la Germania ha trovato una sponda utile sul piano politico. Tutto questo ha in parte portato ad un grande euroscetticismo nei confronti degli altri paesi: ancora prima l’Europa ha fatto la spettatrice impotente a tutta la crisi della Jugoslavia, ha subito l’egemonia americana – e continua ancora a subirla –, ha seguito in maniera acritica tutta una serie di politiche estere – pensiamo alla crisi dell’Ucraina – … Un’ondata sovranista ha certamente le sue ragioni d’essere: non è liquidabile con l’idea del razzismo.
Lei è in Francia da molti anni: che opinione c’è veramente nei confronti dell’Italia?
La domanda merita una risposta complessa, ma personalmente credo che il rapporto tra Italia e Francia resti un rapporto di grande amicizia e ammirazione reciproca, nonché di grandi scambi e interessi culturali-economico-finanziari. L’interscambio tra Italia e Francia è molto importante: la bilancia commerciale è a nostro favore, specialmente nei settori dell’alimentare, della moda, dell’artigianato; ed è sbagliato avere una tensione politica permanente con i francesi. In questo senso, certe élite francesi soffrono di un complesso di superiorità, per cui tendono spesso a considerarci inaffidabili; per certi aspetti invece in Italia c’è un complesso di inferiorità, salvo poi – come è venuto sempre nella Storia – i grandi architetti, i grandi pittori, i grandi musicisti, i grandi intellettuali in qualche modo emigrano in Francia e lì hanno successo. Tanto più, i francesi sotto sotto ci amano e ci invidiano anche, perché a Parigi si mangia italiano e di solito – a parte i viaggi esotici – i francesi vanno in Italia (ci sono cinque voli al giorno Parigi-Venezia).
Anche in Francia possiamo parlare di crisi del giornalismo e del modello di business dei giornali?
La crisi del giornalismo è mondiale: in molti paesi – non parlo di quelli europei – non ha neppure vissuto una bella stagione. In Europa c’è una forte crisi ed è la conseguenza diretta di uno sviluppo dei mezzi d’informazione e del sistema mediatico che ha totalmente rivoluzionato l’informazione, uccidendo de facto la carta, senza produrre il suo sostituto. Il giornale online vende poco ed è cannibalizzato da tutto ciò che c’è di gratis e online. Non si capisce per quale ragione si dovrebbe pagare per un articolo di giornale quando si trova tutto gratuitamente. Si è cercato di correre un po’ ai ripari cercando di far pagare dei contenuti con piccoli contributi, ma i giornali sono entrati in crisi anche per la forte perdita di pubblicità, anche perché vendendo molto online le grandi imprese capiscono che un blog o un influencer apporta molto più clienti di quelli che ne attrae una pagina sul giornale. Non solo: i prezzi stessi delle pubblicità sono calati … L’eccezione è quella tedesca, perché in Germania le attitudini verso la lettura sono importanti: l’interesse per i giornali è rimasto piuttosto forte. Tutti cercano di correre ai ripari: pensiamo al New York Times e al Washington Post che sono stati acquistati dai tycoon di altri settori. Quel tipo di giornali sono aiutati dal fatto che sono in lingua inglese. I nostri uffici di corrispondenza sono stati chiusi o ridotti, gli inviati girano sempre meno: ricordo che alcuni servizi, in Asia o nella ex Jugoslavia, io li definivo “lunghe degenze”, visto che l’inviato stava in ballo per settimane. Oggi l’inviato parte, sta via il minimo possibile per spendere meno, cosa che non fa altro che frustrare la qualità del suo lavoro.
Si parla spesso di fake news, ma per lei che ha vissuto l’epoca d’oro del giornalismo, quali sono le più grandi fake news che ha seguito o con cui ha avuto a che fare?
Sicuramente ricordo l’idea accreditata anche dal Corriere che Pietro Valpreda e l’anarchico Pinelli fossero in qualche modo coinvolti nella strage di Piazza Fontana. Caso che forse è sbagliato paragonare in modo così automatico alle fake news, perché quello era un depistaggio: si deviava una vicenda particolarmente grave e traumatica per il paese verso altri obiettivi. La P2 fu in qualche modo inventata per costruire nell’opinione pubblica un clima diverso. Il caso Tortora, che seguii da vicino perché stavo a Napoli, era alimentato da un abbaglio della Giustizia, alimentato tra l’altro da fake news dei pentiti, che attribuirono a Tortora traffici e spacci di droga che non gli appartenevano: una macchina del fango che distrusse il personaggio … Tutte cose che sono difficili a catalogare come fake news, che per altro sono alimentate dagli stessi utenti.
Le faccio un’ultima domanda. Prima lei ha accennato ad alcuni grandi del mestiere, ma chi sono state le sue guide fondamentali nella sua professione di giornalista?
Dal punto di vista della scrittura sicuramente Alberto Cavallari: la capacità di essere persona colta e allo stesso tempo di raccontare grandi reportage con grande acutezza. Anche Montanelli aveva una grande scrittura, ma lui era un opinionista: ricordo i suoi editoriali e una volta, dopo la guerra del Kosovo, mi invitò a casa sua perché voleva avere notizie fresche. «Io scrivo di politica interna e non scriverò mai di cose che non conosco. Voglio capire le cose da chi sta sul campo», mi disse. Di Bella sul piano dell’umanità, nonostante lo scandalo e i suoi torti. Lui era un animale giornalistico, che fondamentalmente non era una penna (scrisse pochissimi articoli), ma fiutava la notizia. I direttori della mia formazione avevano tutti una grande caratteristica: erano direttori che facevano solo i direttori. Poi è venuta un’epoca in cui i direttori – a cominciare da Ostellino – sono stati direttori molto nazionali, dentro le vicende politiche, molto attivi nel fare del giornale un centro di dibattito, discussione e scontro (in questo credo che Mieli sia stato un maestro, il primo innovatore circa un nuovo modo di essere giornalista e giornalista del Corriere). Mieli smontò la terza pagina e abbandonò in larga misura l’estero, anche perché la Storia lo condusse verso quella direzione, visto che era l’epoca di Mani Pulite e dell’arrivo di Berlusconi. Con de Bortoli c’è stata una certa restaurazione, anche lì, spinto da motivi storici: ci fu l’Afghanistan, l’attentato alle Torri Gemelle, la guerra in Iraq e quella di Jugoslavia. Non metto né Ostellino, né Stille, né Mieli nell’ottica dei miei maestri. Ho avuto un rapporto importante con Verdelli e soprattutto con de Bortoli: entrambi hanno una straordinaria capacità di lavoro e di andare oltre i fatti. De Bortoli entrò al Corriere negli stessi anni in cui entrai io: abbiamo fatto una carriera parallela su ruoli e obiettivi diversi, ma è rimasta sempre una grande amicizia tra di noi. Lo considero un maestro, ma non tanto un maestro da cui mi sento di imparare (visto che entrambi abbiamo fatto cose che l’altro non ha fatto), quanto ha sempre avuto una dimensione etica del lavoro straordinaria. Una capacità di gestire le cose e le persone con estrema calma, apertura e capacità di ascolto. De Bortoli lo conosco da quanto era ragazzo: pur essendo partito da una dimensione di cronaca, poi attenzione a fatti economici, nel corso degli eventi ha maturato anche una straordinaria capacità di scrittura e di visione dei fatti internazionali. Alcune sue interviste e racconti sono stati notevoli.
Intervista realizzata da Amedeo Gasparini, collaboratore de L’universo e de L’Osservatore. Laurea in Scienze della comunicazione, Master in Relazioni Internazionali è appassionato di storia, giornalismo e tematiche internazionali.