Ogni volta che analizziamo una strage di innocenti e il ritratto dei responsabili, oscilliamo fra due scenari semplificati. Nel primo, collochiamo atti con motivazioni ideologiche/religiose. Nel secondo, atti concepiti da menti malate, le cui motivazioni appaiono insondabili.
Nel primo scenario, le stragi di Parigi, Bruxelles, Nizza, l’assalto alla chiesa di Rouen, oltre a molte stragi che avvengono nel resto del mondo – da Istanbul a Kabul, da Beirut a Bagdad, da Nairobi a Mogadiscio – e che suscitano minore compassione, per quanto si tratti di vittime innocenti, in maggioranza musulmane. Nel secondo, eccidi, ormai ripetitivi, in campus, discoteche e luoghi pubblici, soprattutto negli Stati Uniti, o ad esempio, la follia del pilota della Germanwings che decise di lanciare il suo aereo contro le montagne.
Dove collocare gli sgozzamenti in Giappone o la strage di Monaco o l’ultimo accoltellamento pubblico che ha messo in allarme Londra e, mediaticamente, tutto il mondo?
Fino a che punto si deve distinguere : per capire, per reagire? Ci si chiede ogni giorno quanti pazzi ci siano in circolazione e quanti terroristi siano in agguato ad ogni angolo.
I tratti comuni sono la propensione al suicidio, l’essere individuo maschio e giovane, l’elaborazione piú o meno improvvisa di un piano che comporti il massimo numero di vittime e la risonanza dell’atto compiuto. Per questi individui, il suicidio non é scelta intima, ma un gesto che l’intera umanitá deve venire a sapere.
Altre caratteristiche – estrazione sociale, etnia, precedenti penali, disadattamento ambientale e familiare – ricorrono, ma a volte sono fuorvianti, offrono pretesti per propaganda politica o religiosa, poiché assumono il ruolo di parte – piccola – per il tutto, con il rischio di trasformare in capro espiatoio una comunitá, un’etnia, una religione. Al contrario, alcuni tratti comuni possono suscitare considerazioni opposte, persino giustificazioni di natura culturale o sociologica altrettando fuorvianti. Di certo, quelli definitivi come “lupi solitari”, a volte telecomandati a distanza, sono terroristi fai da te, a chilometro zero, azionati dal passaparola, dalla rete, dallo spirito di emulazione.
Nei due scenari, andrebbero studiate anche le nostre reazioni.
Nel primo, crescono il consenso verso misure di sicurezza e la consapevolezza che l’Europa e l’Occidente sono investiti da un’onda lunga che non é partita dalle periferie di Parigi ma dallo sconquasso di equilibri politici e religiosi in tutto il Medio Oriente e da operazioni militari sciagurate. In questo ambito, la risposta non può essere che politica, culturale, militare.
L’azione del folle suscita invece apprensione e smarrimento sempre piú grandi per causalitá e impossibilitá di prevenzione e, al tempo stesso, rimanda un irrazionale messaggio rassicurante : non si tratta di terrorismo, bensí di follia. Quindi?
Siamo davvero in grado di distinguere la genesi delle minacce? Non si tratta piuttosto di diversi gradi di follia? Possiamo ritenere “normale” la mente di un kamikaze? O, andando indietro nel tempo, la mente di chi ha concepito eutanasia, stermini di massa, esperimenti su esseri umani, annientamento di intere popolazioni con metodi scientifici? Hitler é stato alternativamente definito carnefice e pazzo.
Viene in mente il famoso adagio di Heller, in “Comma 22”. Chi é pazzo può essere esonerato dalle missioni di guerra, chi chiede di essere esonerato, non può essere pazzo. Il terrorista é un folle che si cala nel ruolo del terrorista o é un terrorista che sembra folle, ma non lo é?
Se non bastano misure di sicurezza per neutralizzare i “folli” che abitano fra noi, sarebbe d’aiuto un responsabile contenimento mediatico che riduca gli stimoli all’imitazione, le scelte senza ritorno, le salvifiche pulsioni di morte.
Non hanno senso la diffusione sui media e sui social d’immagini terribili e la ripetitivitá ossessiva di sparatorie, minacce, esecuzioni, schianti che in menti disturbate, fragili, in ogni caso “non normali” , possono sembrare un tragico videogioco. Mettiamo, accanto alle cronache, soltanto le immagini del dolore e non lo strazio delle vittime o i simboli degli assassini.
Come nelle giornate dedicate alla salvezza del pianeta, alla pace, alla lotta all’Aids e alla ricerca contro i tumori, dovremmo celebrare una giornata di salute mediatica, in cui si possano discutere problematiche e rimedi.
In passato, l’umanitá é stata minacciata dalla peste fisica. Questa é l’epoca della peste cerebrale e digitale. Dobbiamo trovare il vaccino.
Massimo Nava
mnava@corriere.it