L’anno nuovo della Francia comincia come il vecchio. La differenza è che i gilets jaunes sono meno numerosi e più violenti. Le concessioni del presidente Macron non sono servite né a calmare la piazza né a far risalire il consenso, ma hanno appesantito il deficit pubblico e spento ambiziosi programmi di riforme. Così la politica del gambero scontenta anche la Francia che aveva visto nel giovane presidente l’uomo della modernizzazione, della transizione ecologica, della correzione profonda di uno Stato paralizzato da burocrazia e resistenze corporative e sindacali. Meno numerosi nelle strade, ma forti nell’immaginario politico della Francia povera e declassata, i gilets jaunes sono tentati di diventare movimento organico e forse partito. Lo schema ideologico è quello che ha fatto la fortuna dei grillini: bypass istituzionale e parlamentare, per chiedere o promettere l’impossibile.
Qualcuno parla di clima insurrezionale e forse esagera. Certo è che dentro e fuori la Francia si soffia sul fuoco, mentre il governo sembra ogni volta colto di sorpresa, incapace sia di prevenire sia di reprimere. Macron, la speranza degli europeisti, é sempre piú solo, abbandonato anche da alcuni fedelissimi. In questo scenario complicato, va incontro allo stesso destino dei predecessori, costretti dalla piazza a rifugiarsi nell’immobilismo e a rassegnarsi alla sconfitta. Il gioco della rivoluzione, amplificato da media e intellettuali, piace alla maggioranza dei francesi perché si risolve nella conservazione dello Stato provvidenza fino al prossimo giro di speranze e delusioni. La forza del sistema presidenziale é anche la sua debolezza. Garantisce stabilità, spread basso e prestigio internazionale, ma é condannato all’inazione. Chirac lo aveva capito perfettamente, per primo.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 7 gennaio 2019