Nelle operette morali di Leopardi, il venditore di almanacchi promette un anno più felice dei precedenti. Ma il poeta ci dice che sperare è inutile, la condizione umana non prevede la felicità. Eppure, l’almanacco 2017 potrebbe offrire qualche motivo di speranza : la fine della recessione, un po’ di crescita, qualche passo avanti nel sistema bancario continentale, l’attenuazione di una politica di austeritá che ha fatto disastri e arricchito i soliti noti.
Ma sono temi poco seducenti, male impacchettati, portati da un Babbo Natale europeo antipatico anche ai bambini. Motivi non sufficienti a ridare serenità a famiglie e imprese e a quanti – giovani e anziani – vedono il futuro come una minaccia e non hanno nemmeno i soldi per comperare un almanacco. Motivi non sufficienti nemmeno per rendere più seducenti gli ideali europei : si parla di passi avanti, di buona direzione, di equilibri complicati fra esigenze ed egoismi. E di scadenze che avranno concretezza fra qualche anno.
Movimenti, partiti antieuropei, movimenti populisti e xenofobi – nelle piazze e nei media – non hanno bisogno di promettere la felicità. A loro non interessa l’andamento degli spread. A loro basta ricordare gli anni bui che stiamo vivendo e indicarne cause e colpevoli : le classi dirigenti, la politica, le banche, l’Europa, la moneta unica.
Il linguaggio è diretto, semplice, immediatamente comprensibile : “via tutti”. L’ “euro è un crimine”, sbraitano i leghisti. “Prima di tutto, la nazione”, come vanno propagandando le tante Marine Le Pen in ascesa in tutta Europa. “Sarà sempre peggio!”, dicono tutti.
A volte – come si dice – ci azzeccano. E nessuno può permettersi di disprezzare le ragioni della pancia. Alla protesta e al malessere di larghi strati della popolazione, non si puó contrapporre soltanto una sorta di dogmatica religiosità europea, per cui nulla è discutibile di ciò che si fa o non si fa a Bruxelles. Né si può liquidare ogni istanza come populismo e demagogia.
I populismi si nutrono dei fenomeni economici e sociali che hanno più marcato il nostro tempo : impoverimento dei cittadini e declassamento degli Stati nazionali. Con facili slogan, è anche facile fare confusione e sostenere che le due cose siano legate. Ma l’impoverimento non è una fatalità, né la conseguenza della costruzione europea. Mentre l’indebolimento degli Stati è un processo irreversibile. Si stenta a comprendere, e a far comprendere, che nessun Paese – nemmeno la Germania – può farcela da solo. E che l’Europa (6 per cento della popolazione mondiale, 20 per cento un secolo fa!) è la sola forma possibile di protezione e sviluppo.
“Sarà sempre peggio” non è una speculazione filosofica. E’ autoconvincimento collettivo che inonda sondaggi e talk show per cui sembra non ci siano antidoti. I tempi del “fare” sono troppo lunghi rispetto alla scadenza delle rate e delle bollette. I motivi di ottimismo, troppo invisibili. La pedagogia é un’arma spuntata nel corto circuito di un’informazione rapida, spettacolarizzata, che racconta sempre e soltanto un presente perpetuo, una realtà percepita, spesso banalizzata, raramente rapportata alla storia, alla memoria, al confronto di realtà differenti, magari lontane dalla nostra.
Il linguaggio della politica si specchia in questo presente perpetuo, a volte lo insegue, raramente lo indirizza. L’Europa, anziché coordinarli, deresponsabilizza Stati e governi, nel senso che l’Europa è spesso il comodo alibi o il capro espiatorio delle insufficienze delle politiche nazionali. Basta riflettere sulle politiche dell’immigrazione : insufficienti risposte comuni, egoistiche sovranità nazionali in materia.
Oggi l’”erophobia” ha una carta in più : il tentativo di coordinamento programmatico e culturale dei movimenti, per entrare a piedi uniti nel prossimo parlamento europeo. Via vecchi armamentari ideologici (“non siamo né di destra, né di sinistra”, si sente dire sempre più spesso) per costruire nuove barriere e condizionare l’Europa di domani. Ammesso che l’Europa ci sia ancora.