La nuova Germania compie trent’anni. Il 3 ottobre 1990, a Berlino, i tedeschi celebrarono la riunificazione di un Paese sconfitto dopo la Seconda guerra mondiale e diviso dal 1949. Un solo popolo, una sola bandiera, una sola nazione, un solo governo. In una festa piena di speranza ed entusiasmo, attorno alla Porta di Brandeburgo, nello stesso luogo in cui si erano sgretolati i pezzi del Muro che divideva la futura capitale, si compì il processo politico e istituzionale cominciato la notte del 9 novembre dell’anno prima.
La caduta del Muro segnò la fine della Guerra fredda, il crollo dei regimi comunisti nei Paesi dell’Est, l’implosione dell’URSS. Per l’Europa, fu l’inizio di una nuova storia e, per la Germania, di un percorso a tappe forzate verso la Wiedervereinigung, la riunificazione: da sempre auspicata dalle classi dirigenti della Repubblica Federale e raggiunta dal cancelliere Helmut Kohl, il secondo padre della patria dopo Konrad Adenauer, il cancelliere della ricostruzione postbellica.
L’unità del Paese era il sogno di tutto un popolo, anche se molti tedeschi dell’Est avevano sperato in uno sbocco diverso, socialmente meno traumatico. Avevano vissuto quarant’anni in una prigione a cielo aperto, umiliati da un’oppressiva omologazione ideologica; sognavano libertà, democrazia, possibilità di viaggiare e abbracciare amici e parenti nella Germania Occidentale, ma non avevano previsto di subire una sostanziale annessione e la liquidazione di un sistema di protezioni sociali tipiche di uno Stato comunista.
Pur avendo patito l’autoritarismo del regime, faticarono ad adattarsi a un modello economico e a uno stile di vita così diversi dai loro. Erano stufi di fare la coda per la spesa, di attendere mesi per il telefono di casa, invidiavano i supermercati, le Mercedes e le scarpe dell’Ovest, ma erano impauriti nel doversi misurare con i concetti di competitività, meritocrazia, flessibilità, orario ridotto, fallimento, licenziamento.
La società dell’Est conduceva una vita più semplice ma sicura e si era costruita un’identità culturale in cui si riconoscevano intellettuali e artisti, giovani e anche dissidenti politici. In una popolazione comunista per educazione e in maggioranza atea per convinzione, restava viva la spiritualità, grazie all’opera sotterranea delle chiese evangeliche che sarebbe stata determinante per la caduta del regime.
Nelle coraggiose manifestazioni di protesta cominciate nell’autunno dell’Ottantanove, i tedeschi dell’Est avevano sognato un autentico egualitarismo, quell’egualitarismo esaltato dalla propaganda e tradito da burocrati e gerarchi con piccoli e grandi privilegi di casta, dalla villetta in campagna a liste d’attesa più brevi per beni essenziali e per comprarsi una Trabant, l’auto del popolo che sembrava uscita da un cartoon della Disney. Le aspettative della popolazione erano frustrate dalla perdita di competitività delle industrie della Germania Est e dalla diminuzione dell’interscambio con i Paesi dell’area socialista, entrati anch’essi in una crisi sistemica irreversibile.
Il più stabile Stato dell’Est era decaduto a baracca burocratica e procedeva per inerzia, rafforzando – senza convinzione e con risultati spesso opposti a quelli auspicati – l’apparato repressivo, fino a quando l’URSS di Michail Gorbaciov decise di staccare la spina.
La rivoluzione pacifica si risolse nello smantellamento di un regime in agonia. La fine fu veloce, spietata e capillare, attraverso la privatizzazione di aziende e servizi, la rieducazione dei lavoratori a ritmi e mentalità occidentali, disoccupazione di massa, salari inferiori. (…)
Di questo sistema a luci e ombre, sommerso dalla fuliggine delle ciminiere e dall’odore di benzina scadente, all’indomani della riunificazione non restava quasi nulla, salvo cimeli sepolti nei musei o in vendita come souvenir. Con il passare degli anni, è cominciata almeno la ricostruzione della memoria, attraverso film, opere artistiche e letterarie di quel periodo. Come quando si tirano fuori da una soffitta vecchi libri, vestiti dismessi e fotografie ingiallite, la Germania riunificata ha recuperato quanto continuava a esistere dall’altra parte sotto la cenere, in luoghi dimenticati di un mondo che coltivava la presunzione di collegare alle glorie del socialismo i fasti illusori della Prussia rossa. La Kulturbrauerei di Berlino ospita da qualche anno il museo permanente della vita quotidiana nella DDR.
La cancellazione della Repubblica Democratica Tedesca non si è tuttavia risolta in una totale omologazione. Durante una conversazione dopo la caduta del Muro, Marion Donhoff, fondatrice della”Zeit”, l’autorevole settimanale della borghesia illuminata diretto insieme a Helmut Schmidt, mi confidava una previsione che credo si sia avverata: “La Germania non è diventata una Repubblica Federale più grande, ma qualcosa di diverso. […] Ci vorrà del tempo, ma troveremo il modo di crescere bene insieme. […] La parola “solidarietà” è la chiave di tutto.
Una generazione è ormai cresciuta senza Muro, città come Dresda e Lipsia sono diventate importanti poli manifatturieri, universitari e tecnologici, le differenze economiche si sono fortemente attenuate, il Paese è più unito. Attraverso percorsi sociali e identitari, nel corso degli anni la nazione tedesca ha cambiato pelle, si è messa in discussione, è stata costretta a ripensare la propria storia, i valori di riferimento, il destino e il ruolo da svolgere in Europa. La nuova Germania è orgogliosa di aver costruito qualcosa di straordinario, di aver coronato il sogno dei figli della guerra, di aver scritto un capitolo fondamentale nella storia europea. Ma avverte anche il peso delle responsabilità: del passato e del futuro.
A questa Germania i vicini hanno guardato, e spesso ancora guardano, con apprensione, perché nelle grandi tradizioni culturali e identitarie tedesche ci sono anche le cattedrali filosofiche di Fichte ed Hegel, le basi di un pensiero sistemico, il sostrato ideologico dello Stato-nazione, le ambizioni prussiane di Bismarck (con il sangue e con il ferro!), i virus del militarismo, la Gewalt, la violenza che ha avvelenato per secoli le due sponde del Reno. Si sa, i tedeschi hanno un rapporto speciale con le regole, con il potere della norma che, come spiegava Hannah Arendt, diffonde una pericolosa cultura dell’obbedienza collettiva. Molti continuano a temere una nazione più grande, più popolosa, più forte ed egemone, allargata economicamente ad aree mitteleuropee e balcaniche di storica influenza. Basti citare la battuta attribuita al nostro Giulio Andreotti: “Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”. Frase che è rimasta famosa per la sua efficacia in mano ai detrattori della Germania, di cui lo stesso Andreotti si pentì: “Potevo risparmiarmela” ammise vent’anni dopo. Una variante, in realtà, di quanto ebbe a dire l’intellettuale francese Francois Mauriac.
Gli stessi tedeschi avvertono questa paura nei confronti della Storia, delle colpe incancellabili che rimettono in circolo fantasmi del passato, accompagnati da rigurgiti di xenofobia. La paura ha però distillato consapevolezza, responsabilità, volontà di fare propria, come monito nazionale, la sentenza di Thomas Mann in un discorso del 1953: “Non voglio un’Europa tedesca, ma una Germania europea” disse il vecchio scrittore di ritorno dall’esilio americano, pensando a una sorta di “detedeschizzazione”, che in tedesco – Entdeutschung – suona più appropriato e meglio pronunciabile. Il monito rimase famoso nella versione sintetica, ma il concetto più ampio comprendeva il sogno di un’Europa unita e di una patria tedesca riunificata, possibile soltanto se i tedeschi fossero riusciti a rassicurare i vicini europei.
Ci sono riusciti? Possiamo fidarci davvero e mettere definitivamente in soffitta le apprensioni che circolavano all’indomani della caduta del Muro? Del monito di Mann si sono fatti interpreti i maggiori protagonisti del dopoguerra, da Adenauer a Kohl, da Schmidt a Brandt, da Schroder alla Merkel, sinceramente convinti che l’Unione Europea avrebbe salvato la Germania dal proprio passato.
Nell’immediato dopoguerra, la germanofobia dei vincitori impose la sottomissione e lo smembramento del Paese, l’integrazione in Europa servì a impedire che la spettacolare ricostruzione economica riproponesse volontà egemoniche.
Oggi l’impegno europeo della nuova Germania è un dato di fatto che stimola anche il senso di appartenenza di tutti i cittadini europei. Ma nei primi momenti del Paese verso la riunificazione, pieni di entusiasmo popolare e autocelebrazioni, il cancelliere Kohl sentì il bisogno di calmare gli animi: “I capitoli più tragici della storia tedesca sono sottoterra ma in superficie, e il terreno va calpestato con attenzione”.
Nella sua monumentale Storia della Germania moderna, Golo Mann auspicava che il Paese avrebbe trovato il modo di manifestare le proprie capacità molto più vantaggiosamente che non con una semplice ricucitura. Ossia al servizio di un’Europa più forte, più integrata, più coesa, nell’interesse degli europei, degli stessi tedeschi e, in definitiva, di che cosa l’uomo debba fare di se stesso. E constatava un’aspirazione nella storia tedesca, che ha avuto definitivamente torto. Essa si basava sull’eresia che la nazione tedesca dovesse espandersi in Europa a spese di altri popoli e dominarli.
Incontestabile, d’altra parte, che la Germania sia il grande vincitore economico e finanziario del Vecchio Continente. Nonostante i costi della riunificazione, il Paese ha accumulato negli ultimi anni un tesoro che ha permesso di ridurre il deficit dello Stato, di avviare l’ammodernamento di servizi pubblici e infrastrutture e, più di recente, di fronteggiare in maniera egregia l’epidemia di coronavirus.
Nel trentennio dalla Wiedervereinigung, un grande interrogativo si è continuamente riproposto, ossia se la Germania volesse utilizzare anche a vantaggio dell’Europa una parte della ricchezza che ha accumulato, anche grazie all’Europa stessa, essendo un Paese che esporta molti più beni di quanti ne importi.
La grande crisi della primavera 2020, seguita all’epidemia, ha dato risposte positive. La cancelliera Merkel si è coraggiosamente assunta la responsabilità di rompere alcune pregiudiziali della cultura economica nazionale e ha dato il proprio assenso al gigantesco piano europeo di aiuti finanziari ai Paesi più colpiti. Il concetto di egemonia, che ha così spesso avuto una valenza negativa in relazione alla Storia, si può declinare con altri significati: solidarietà, assunzione di responsabilità, consapevolezza che nessuno – nemmeno la potente Germania – si salva da solo. Dovremmo cominciare a parlare di “egemonia calma”, di forza tranquilla. La nuova Germania, quando si relaziona ai vicini europei, sente il bisogno di esprimere una raggiunta “normalità decomplessata”.
La storia del successo della Germania – il senso di un appello lanciato all’inizio di aprile del 2020 da due ex vice cancellieri, Joschka Fischer e Sigmar Gabriel – non può essere raccontata senza la solidarietà europea. Nessun Paese ne ha beneficiato [dopo la Seconda guerra mondiale, ndr] quanto la Germania. Nessun altro Paese ha tanta responsabilità verso l’Europa.
La rappresentazione del nuovo Paese è la sua capitale, la Berlino ricostruita, riunificata, luccicante di grattacieli e di moderni palazzi del potere, un palcoscenico per architetti e designer di tutto il mondo, crocevia di culture e tradizioni che, in questa “Grande Mela europea”, esaltano il senso del continuo divenire, il riferimento letterario della metropoli. Una città di contraddizioni, di culture alternative, che ha voglia di divertirsi e sognare, che ha raddoppiato musei, gallerie, luoghi di svago e della memoria, invasa da turisti, giovani, nuovi ricchi e nuovi poveri, da polacchi e russi, da artisti e stilisti. Dai nuovi tedeschi Berlino appare così diversa dall’ex capitale della Prussia, del Reich nazista e della Germania comunista.
Fino alla riunificazione, la sonnacchiosa capitale Bonn (la cui unica attrazione, come disse il presidente della Baviera, Franz Josef Strauss, è il treno per Monaco, cioè per andarsene subito dopo le riunioni parlamentari) era il simbolo di un Paese progredito e stabile, ricostruito a prezzo di enormi sacrifici e rinunce, perennemente costretto a scusarsi, il “gigante economico e il nano politico”, secondo una formula fin troppo abusata nei decenni della rinascita postbellica.
Un Paese rassegnato a rendere meno dolorosa la divisione, lasciando a letteratura e cinematografia il compito di tenere viva la memoria, e a consentire che il Muro della paura e della vergogna diventasse anche un luogo cult, con il suo fascino un po’ lugubre esaltato da storie di spie, fughe leggendarie, comunicazioni segrete fra mondi incomunicabili. Un Paese che era riuscito a fare della divisione un punto di forza, impegnato a realizzare un autentico sistema federale policentrico, con differenti centri di sviluppo economico, decisionali, di formazione della cultura e della politica, ambiti espressivi delle tradizioni religiose e popolari.
La Germania, nonostante l’immagine stereotipata di omogeneità teutonica, ha molte facce. E’ la Baviera cattolica e conservatrice di Franz Josef Strauss, storico leader della CSU (Unione cristiano-sociale in Baviera), scomparso un anno prima della caduta del Muro. E’ la frenetica area industriale del Baden-Württemberg, la più ricca d’Europa. E’ la società protestante del nord, delle città anseatiche, l’elegante e sofisticata Amburgo, sede dei giornali più influenti del Paese, è la colta Lubecca dei Buddenbrook, dove, come scrisse Mann, “un senso di ristoro e di pace, dopo le paure e le sofferenze recenti, era nell’aria”.
La Germania è anche l’ordinata Francoforte, il centro del potere finanziario con i grattacieli di cristallo, la Bundesbank, le sedi strategiche dei pi importanti gruppi della finanza e dell’industria, la città che ha rappresentato per molto tempo il centro delle decisioni, secondo un modello di governance superato negli ultimi anni: l’intreccio di rappresentanze industriali e bancarie, partecipazioni e cogestione sindacale.
Si sa, i pregiudizi sono duri a morire, casi di cronaca ed errori li rilanciano e li rafforzano. E i tedeschi non sono maestri di comunicazione. Ma non è più discutibile, in confronto con altri sistemi e modelli, che la Germania sia una delle più solide ed efficaci democrazie del mondo, sul piano sostanziale e formale. L’equilibrio fra poteri è un principio assoluto, garantito dall’organizzazione dello Stato, della società, dell’economia. La magistratura e la banca centrale sono indipendenti. La Corte costituzionale sorveglia l’operato dell’esecutivo ed è un’ultima istanza per i cittadini. Le imprese massimizzano profitti, i sindacati massimizzano salari. Lo Stato federale garantisce solidarietà e sussidiarietà fra Lander. Il Bundesrat, la camera dei Lander, rappresenta un contrappeso all’azione del governo, anche perché capita che la maggioranza sia politicamente diversa dalla coalizione nazionale.
A detenere il potere è il cancelliere, il presidente della Repubblica è garante della Costituzione ed è una figura di rappresentanza istituzionale.
Il Parlamento federale – il Bundestag – discute e ha il compito primario di attuare il programma del cancelliere. Se si determina un’alleanza diversa, la sfiducia deve essere costruttiva, ossia garantire il sostegno alla successiva cancelleria. Anche per questo ricorrono nella storia recente le grandi coalizioni, non si disfano i governi con il ritmo delle stagioni e ci si pensa due volte prima di indire elezioni anticipate.
I partiti selezionano le classi dirigenti, ricevono fondi pubblici, sono il perno del sistema. La soglia di sbarramento al 5 per cento impedisce i giochi di palazzo e la frammentazione della rappresentanza.
Un sistema che garantisce stabilità e decisioni il più possibile condivise – anche attraverso faticosi compromessi – è a più efficace assicurazione sulla storia tedesca e sul futuro dell’Europa. Difficilmente la Germania .è imprevedibile, considerando la longevità politica dei suoi leader. Si sa che cosa vuole, in genere fin da subito.
Democrazia sostanziale, stabilità, normalità, non sono esenti da corruzione, scandali, traffici e discutibili operazioni finanziarie e industriali, con la tendenza a nascondere la polvere sotto il tappeto, peraltro senza la furbizia italiana. Infatti gli scandali si scoprono con boati fragorosi e quasi sempre i responsabili ne pagano le conseguenze. (Il Dieselgate della Volkswagen, lo scandalo dei limiti truccati delle emissioni, è costato all’azienda una ventina di miliardi di euro, dimissioni a catena dei suoi manager e rimborsi alla clientela.)
Rispetto ai partner europei, in ritardo sulla strada delle riforme, indebitati oltre misura, con crescita debole e processi decisionali paralizzanti, la Germania riunificata si è attrezzata più di altri per le sfide della competitività e della sostenibilità del sistema sociale. E’ il Paese europeo dove si va in pensione più tardi, ma è quello con il miglior rapporto deficit/PIL, esportazioni record, salari alti, ai primi posti per servizi pubblici e protezioni sociali.
Molto resta da fare, naturalmente. Il modello – in particolare le infrastrutture e l’apparato industriale, dipendente dal comparto automobilistico – necessita di investimenti e innovazione tecnologica. Tanto più che si avvicina la scadenza, irreversibile, dell’abbandono dell’energia nucleare. Lo sforzo di trasformazione accompagna altre sfide e scadenze: quelle da tempo al centro del dibattito politico – nuove immigrazioni, invecchiamento della popolazione, dipendenza energetica – e quella della ripresa economica dopo la devastante epidemia del 2020.
L’anniversario della riunificazione cade nel semestre di presidenza di turno dell’Unione Europea (luglio-dicembre 2020) e non credo sia casuale il fatto che Angela Merkel l’abbia preparato con uno slogan sottratto al presidente americano Trump: “Make Europe Great Again. (MEGA). E la priorità dell’agenda sarà la mobilitazione di risorse per superare la crisi pandemica, incrementare le protezioni sociali dei cittadini, implementare la transizione ecologica.
In più occasioni la Germania è ritenuta troppo rigida e troppo egoista, ma basta sostituire “troppo” con “non abbastanza” per capire il punto di vista della maggioranza dei tedeschi e dei governi del Nord Europa. La Merkel si è assunta anche il compito di spegnere queste diatribe. Molti ritengono che la Germania aspiri a essere una “grande Svizzera”, prospera e appagata, propensa a disinteressarsi degli affari del mondo e a contribuire il meno possibile ai destini dell’Europa. Non è più così. Nei primi mesi dell’emergenza sanitaria, mentre le istituzioni internazionali e la Banca centrale europea (BCE) sparavano “bazooka” finanziari per risollevare l’economia, l’atteggiamento della cancelliera nei confronti dei Paesi dell’Europa meridionale – i più colpiti dalla pandemia – ha fatto cadere molti tab. tedeschi.
Il tempo dirà se saranno definitivamente seppelliti o se riappariranno alla fine dell’emergenza.
Non è una previsione scontata né facile. I tedeschi si sono identificati nella politica dei piccoli passi della loro cancelliera. La grande middle class auspica una governance europea e nazionale che faccia funzionare l’euro, protegga dall’inflazione e salvaguardi il modello economico. Il Paese continua a essere convinto che il proprio benessere dipenda dalla stabilità del sistema pensionistico e di sicurezza sociale.
A differenza di italiani, francesi e spagnoli, la maggioranza non è proprietaria di case, ha un patrimonio personale inferiore, un quarto della popolazione non se la passa bene, come confermano poco esplorate statistiche su disagio sociale e povertà. Circa sette milioni di tedeschi ricevono sussidi sociali a vario titolo, un terzo non riesce a risparmiare. Ogni scricchiolio provoca incertezza.
Oggi due persone che lavorano finanziano una pensione. Fra vent’anni, se non interverranno ondate migratorie e integrazione di cittadini stranieri, di cui tanto si parla ma che molti non vogliono, il rapporto sarà di uno a uno. Si dovrebbe riflettere più a fondo sul “benessere” tedesco, una società in cui anche i ricchi fanno il conto della spesa.
A trent’anni dalla riunificazione, questo libro vuole esplorare una Germania cambiata nello spazio di una generazione. Non incontreremo, come detto, una Grande Germania, ma un Paese che da sempre cerca di risolvere l’impossibile equazione geopolitica di essere la più importante potenza europea e una piccola potenza mondiale.
Non ho seguito un percorso cronologico, che avrebbe annoiato il lettore, ma ho focalizzato l’attenzione sulle fasi significative di questo percorso e sui principali protagonisti. Trent’anni sono un periodo lungo nella vita di una persona, breve nella storia di una nazione. Sono sempre il risultato di scenari passati che hanno avuto influenza sui processi sociali e politici del presente.
Disponibile sul sito Bur Rizzoli